Oggi si racconta la storia del 25 aprile 1945 con gli occhi di un bambino che anni dopo la racconterà ad un altro bambino. E’ una storia vera, di un posto vero tra la pianura e la montagna. Come tutte le storie sulla bocca e negli occhi dei bambini si deforma, ingigantisce, divaga volentieri su sentieri fantasiosi e lascia per strada nomi e luoghi. Così se a qualcuno vien voglia di pignolare su certi particolari bislacchi o ha la tentazione di far le pulci a talune presunte incongruenze storiche, bontà sua, non scocci troppo.
A Giacomino quel giorno gli era girata così. Gli andava di fare botti e andare a pesca e aveva ben pensato di unire l’utile al dilettevole. Non c’è micca da farsi ingannare dal nome perchè Giacomino della banda di mocciosi ch’eravamo era quello con più chili e più fegato. Così stavamo tutti sulla riva del torrente pronti per andare a cavedani con le bombe a mano prese in prestito ai crucchi.Noi i tedeschi praticamente ce li avevamo in casa. S’erano piazzati armi e bagagli lì a due passi. C’enerano di quelli con certe facce da disgraziati che non sganciavano un sorriso neanche a calci negli stinchi. A quelli lì gli avrei mollato volentieri due pedate nel culo, ma mi mancava ancora l’altezza giusta e la voglia di lasciarci la pelle.
Poi c’erano anche quelli che c’avevano una faccia da tognone, che non avrebbero fatto male a una mosca. Figli di mamma che un bassotto coi baffetti c’aveva spedito giù in Italia con la gentile collaborazione di quell’altro che ogni volta che mio padre leggeva il giornale gli diventava la faccia rossa e per una buona mezz’ora andava avanti a pregare accidenti assortiti e mugugnati. Facile indovinare che la categoria dei tognoni era quella più sensibile alla mano lesta di Giacomino.
Già alla prima pescata facemmo un baccano che ci sentì distintamente, tre chilometri più su , anche Pirott, al secolo Giovanni Pirotti, nonno di Carletto e noto per essere sordo come una campana. Si racconta che il pomeriggio che gli americani sganciarono un bel po’ di bombe vicino a casa sua i parenti se lo dimenticarono nell’aia dove rimase a sonnecchiare sulla sedia durante tutto l’ambaradam. Quando, usciti dal rifugio, gli spiegarono la faccenda ci mancò poco che ci rimanesse di botto. Da quel giorno Giovanni Pirotti detto Pirott abolì il riposino pomeridiano.
Nessuno di noi si preoccupò dei pesci che venivano a galla, c’era da far girare le gambe alla svelta e tagliare la corda.
Nel tornare a casa sapevo già cosa mi aspettava. Toccava solo cercare di fare la faccia più innocente del mondo e sperare di schivarle grazie alla mediazione di mia madre. In casa mio padre non proferì parola, mi mollò un manarverso neanche dei più micidiali, di quelli per intendersi che ti lasciavano il rosso per tutta la sera e la cosa finì lì. In fondo non andò male, anche perché in quei giorni mio padre era di buon umore. La guerra stava per finire, forse era questione di settimane, forse di giorni.
Di quel buonumore godeva anche mio zio Giuseppe. In più c’aggiungeva una strana eccitazione. Da un po’ di tempo faceva su e giù dal solaio in continuazione. Saliva furtivo e tornava giù sfregandosi le mani. Un giorno mi venne il bozzo di capire quale diavolo di tesori nascondesse e così senza farmi notare mi infilai dietro di lui in soffitta. Nel marasma di cose sparpagliate e ammucchiate mio zio andò dritto e deciso alla vecchia stufa e dopo aver sgarbugliato un filo di ferro tirò fuori un paio di lucidi scarponi nuovi di zecca. Ecco il suo tesoro.
Ora c’è da sapere che mio zio l’avevo sempre visto girare con due robacce ai piedi che chiamarle scarpe ci voleva una bella fantasia. Andava via anche un po’ sghembo per il fatto che quella sinistra c’aveva un buco nella suola che ci poteva passare un carrarmato.
La sera a cena chiesi riservatamente spiegazioni della faccenda del ‘tesoro’. A mio padre venne un sussulto di risata, poi mi raccontò che quei benedetti scarponi mio zio li aveva comprati con un po’ di risparmi all’inizio della guerra e che li aveva custodi segretamente e gelosamente per sfoggiarli l’attimo esatto in cui tutto questo casino fosse finito. Insomma il giorno della Liberazione lo zio avrebbe festeggiato con ai piedi le più belle calzature di tutto il circondario.
Finalmente anche quel giorno arrivò. Già la parola era stata fatta passare dai partigiani : tutti nei rifugi o barricati in casa che se gli Alleati vedono solo una finestra aperta ci mettono due secondi a fare il tiro al piccione.
I tedeschi fecero relativa resistenza. I più se l’erano data a gambe poco propensi a lasciarci la pelle in ultimo per quel coglione con i baffetti. Dal rifugio si sentiva lo scambio di colpi di mitraglia. Qualche minuto e la battaglia sarebbe finita com’era scritto che doveva finire. Prima però ci scappò il botto, quello grosso, di non so quanti millimetri, che doveva essere partito dal carrarmato americano che stava in testa alla colonna.
Da come lo sentimmo fischiare e dal fracasso che ne derivò calcolammo con una certa approssimazione che non doveva aver colpito troppo lontano. In un attimo sulla faccia di mio zio quell’approssimazione si fece certezza quando gli tornò alla mente quell’unica finestra della casa che non aveva scuri da chiudere: era la finestra della soffitta.
La guerra era finita. Mio zio quel giorno scartabellò un po’ tra le macerie. Riuscì a tirarne fuori solo una suola bruciacchiata e pure sinistra. Poi se andò a festeggiare con tutti gli altri la libertà di quel 25 aprile 1945, con le suole bucate ma la faccia felice.