C’è questa cosa delle parole che cambiano.
Prima di partire per un viaggio le hai messe lì. Sembra un buon posto, comunque il posto giusto, con un suo perchè.
Sherpa ad esempio. Non è micca come quando stavi sul sussidiario. Sherpa non vuol dire portatore. Sherpa è una etnia, un popolo di poche decine di migliaia di esseri umani che viene da lassù, dalle valle del Khumbu, sotto la montagna più alta del mondo.
Ecco, quando sei partito, “sherpa” l’hai piazzato lì, in quei pochi o tanti centimetri quadrati di sicurezze da portarti dietro.
Poi, succede che sherpa diventi qualcos’altro. Diventi la faccia sempre sorridente e rassicurante di Ngima, del suo parlar piano e del suo contare con il pollice. Diventi la gentilezza e l’ospitalità quasi imbarazzante di questi altri 5 ragazzi sherpa (Dorsij, Khami, Danaru, Pasang, Ghasel, scritti come si pronunciano) che salgono e scendono con te, con il doppio o il triplo del peso, magari con i sandali o le scarpette da ginnastica. E tu un po’ scemo ti senti, con gli scarponi pesanti e i tessuti ipertecnologici.
Sherpa diventa quel “dormito bene stanotte ?” che non manca mai alla mattina. Diventa il fischiettare lungo il sentiero e quel “tapum tapum tapum” che Ngima (Nima) infila di soppiatto nel coretto alpino improvvisato. Diventa il piacere, prima che il dovere, di contribuire come si può alla propria comunità.
Diventa un modo di guardare e vivere il mondo con un tasso enorme di rispetto per l’uomo e per la natura.
Sui libri avevi trovato una definizione, sui sentieri hai forse trovato un amico.
Un mondo un po’ più sherpa di certo non guasterebbe.