Partiamo dalla fine: del destino del Tibet e dei tibetani non importa a nessuno. O quasi.
Non importa alla comunità internazionale, perchè i tibetani a stare larghi sono rimasti in 6 milioni e la Cina è a quota 1 miliardo e trecento milioni di abitanti con relativo Pil.
Non importa più di tanto ai media, perchè con tutta questa non-violenza non ci si fanno i titoli in prima pagina. Ecco, magari se aumentiamo il numero di immolazioni e riusciamo a procurarci qualche foto, una undicesima pagina “sezione esteri” o venti secondi dopo il servizio sull’accoppiamento dei pinguini della Patagonia lo strappiamo.
Ad occuparsi di Tibet è rimasta la diaspora tibetana, Richard Gere e quei colossali rompiballe dei Radicali che, da che mondo e mondo, se intravedono una causa persa ci si infilano a testa bassa.Radicali che sono riusciti in questi giorni di anniversari a far approvare in qualche decina di Consigli Regionali una mozione pro-Tibet con esposizione di bandiera annessa.
Anche la Regione Emilia Romagna ha approvato all’unanimità una risoluzione pro-Tibet questa volta presentata dal Partito Democratico. Per risparmiare tempo ed energie hanno copia-incollato la mozione della Camera dei Deputati dove si impegnava la giunta a “sollecitare il Governo, nel quadro dell’imminente Vertice UE-Cina, ad un passo formale affinché nella Repubblica Popolare Cinese vengano immediatamente interrotte le violenze nei confronti della popolazione e dei religiosi tibetani”.
Lodevole.
Al vertice Ue-Cina ovviamente nessuno si è azzardato a parlare di Tibet per ragioni abbastanza note, ma lo sforzo dell’Assemblea Regionale sarebbe stato comunque vano: il vertice si è svolto il 14 febbraio, la risoluzione l’hanno approvata il pomeriggio del 28 febbraio. Alle volte si sottovalutano le insidie del copia-incolla.
Perchè in Italia la vicenda tibetana è ormai diventata un esercizio sopraffino di paraculaggine.
Prendete la più grande azienda di questo paese.
Nel 2008 per la pubblicità della Lancia il gruppo Fiat arruolò Richard Gere e confezionò uno spot con un sacco di monaci, yak, montagne, la copia sputata del Potala di Lhasa e il riflesso del sosia di Tenzing Gyatso (al secolo il 14° Dalai Lama). Non lo ricordate ? E’ questo.
Qualche giorno dopo all’ufficio stampa della Fiat tocco pubblicare con urgenza un comunicato.
Avevano fatto uno spot ambientato in Tibet con il più noto attivista pro-Tibet al mondo e adesso dovevano chiedere scusa alla Repubblica Popolare Cinese: “Il Gruppo Fiat riafferma la propria neutralità in merito a qualsiasi questione politica, sia essa nazionale o internazionale”. Scusateci era solo marketing, del Tibet sinceramente non ce ne sbatte nulla.
Poi c’è la gara, a tratti commovente, ingaggiata dai diversi Presidenti del Consiglio nell’evitare incontri anche fortuiti con il Dalai Lama. Pensare che l’ultimo ad incrociarlo fu Berlusconi nel 1994 non mette certo di buon umore: chissà che idea si è fatto il povero Tenzing. E sopratutto che barzelletta gli avrà raccontato Silvio nostro ?
La vicenda tibetana sul piano diplomatico è ormai ridotta a farsa. I tibetani sono buddisti e i buddisti stanno simpatici all’opinione pubblica occidentale (mica come quei disgraziati di Uiguri che tra l’altro sono musulmani). D’altra parte i cinesi sono piuttosto sensibili sul tema. Che si fa ? Tendenzialmente quelli furbi che, un colpo qui e un colpo là, badano al sodo ovvero al portafoglio. Qualche tempo fa uno studio di una università tedesca ha stimato “l’effetto Dalai Lama”: nei due anni successivi all’incontro con l’Oceano di Saggezza la nazione ospitante perde esportazioni verso la Cina con percentuali stimabili tra l’8 e il 17%.
E quindi vanno bene le risoluzioni, le bandiere, i sit-in e i gesti simbolici (anche scemi, come tendenzialmente quelli dello scrivente), ma il Tibet è una faccenda dannatamente importante e complessa che ci riguarda da molto vicino.
Non è solo questione di geopolitica o di risorse. E’ molto di più.
Il popolo tibetano così geograficamente e culturalmente periferico è un granello di sabbia come molti altri.
Ma è un granello che ha la forza di inceppare una macchina gigantesca.
Riconoscere una qualche forma di autonomia alle comunità tibetane sparse nell’immenso altipiano (la maggior parte degli scontri si concentra oggi fuori dalla Regione Autonoma del Tibet) vuol dire innestare nel cuore di una nazione con 56 etnie il virus della democrazia.
Un virus pericoloso.
Quello che ci dicono quei ragazzi e ragazze, spesso giovanissimi, che si danno fuoco in mezzo ad una strada è che non tutti sono disposti ad accettare il progresso senza diritti, il benessere senza la libertà.
E’ un concetto che può mandare a gambe all’aria la Cina come fabbrica del mondo e sgretolare il teorema su cui si regge: sviluppo e ricchezza senza diritti.
Roba che fa tremare i polsi.
E non solo ai cinesi.