“Una singola morte è una tragedia, un milione di morti sono statistica.”
Cortelà son dieci case sparse e tutt’attorno vigne.
C’abitava Renato Turetta.
Renato è morto l’altro giorno a 67 anni, dopo un mese e più che l’avevano portato in ospedale.
Giocava sempre a carte con “el Moro”, che poi era il soprannome con cui a Vo’ chiamavano Adriano Trevisan, il primo decesso diagnosticato in Italia per quella cosa lì che c’abbiamo tra i piedi, che è così veloce e stronza che arriva fino a Cortelà e manco te ne accorgi.
“Una singola morte è una tragedia, un milione di morti sono statistica.”
Io c’ho sempre un po’ le vertigini davanti ai numeri grandi ed è per quello che cerco di aggrapparmi alle cose più piccole, che riesco a vedere meglio, a capire meglio, senza prendere degli svarioni da far girare la testa.
E allora torno sempre a Vo’, con i suoi 3.300 abitanti, un poco meno che qui dove abito io, magari dove state voi.
Lì è successo che, subito dopo che è morto el Moro, hanno testato tutti e alla fine è venuto fuori che c’erano altri 87 contagiati. Fa più o meno il 3% dell’intera popolazione di Vo’.
Più della metà di quelli contagiati è risultata “asintomatica”, che poi vuol dire che stava bene, non c’aveva neanche il raffreddore. Una quarantina di persone insomma, ignare e contagiose.
Finita la quarantena (di due settimane) tutti quelli di Vo’ hanno rifatto il test e i contagiati erano rimasti solo 7 (anche qui asintomatici). Che è lo 0,002% o per meglio dire il “due per mille”.
Un gran risultato, che ci deve far sperare. Ma sperare con attenzione e prudenza.
Alla fine delle due settimane, se non ci fossero stati i test, “gli asintomatici sette” sarebbero usciti dalla quarantena continuando la loro vita di prima: girando, lavorando, abbracciando, giocando e contagiando gli altri 3.000 e rotti abitanti di Vo’ che non avevano ancora contratto la malattia al primo giro.
Questa è la brutta notizia.
Dobbiamo fare ogni sforzo di isolamento in queste settimane, ogni sforzo possibile perché serve e servirà. Ma non basta.
Se non ci attrezziamo, la giostra continuerà a girare.
Il nostro orizzonte non può essere il 3 aprile.
Non è che da quella data riparte la vita di prima. Questo è bene che ce lo diciamo con sincerità.
Ma occorre prepararci da ora, subito, immediatamente, con una strategia che ci porti fuori dall’emergenza.
E questa strategia, come ha detto Andrea Crisanti dell’Università di Padova (uno che i test ce li aveva pronti il 18 gennaio e voleva farli a chi tornava dalla Cina, ma gli hanno detto di no), si chiama “sorveglianza sanitaria attiva di massa” che passa anche attraverso la nostra capacità di fare e analizzare migliaia e migliaia di tamponi al giorno, in ogni parte d’Italia. Bisogna attrezzarsi per quello, investirci soldi e risorse. Subito.
E’ un po’ come gli incendi nei boschi.
La nostra urgenza ora è spegnere questo grande incendio che minaccia le nostre case, le nostre città, il nostro vivere.
Ma viviamo e vivremo per diverso tempo in una stagione secca, su una terra arida e pronta al primo colpo di vento a riprender fuoco.
Dobbiamo attrezzarci con risorse umane e materiali per capire in tempo reale dov’è più forte il pericolo. Spegnere sul nascere la più piccola fiamma e far terra bruciata intorno.
Solo così un giorno torneremo a raccontare le morti come tragedia e non come statistica.
E poi arriverà, finalmente, la stagione delle piogge.