Io devo dirvi che il Boscaccio era un paese dove non moriva mai nessuno, per via di quell’aria straordinaria che vi si respirava.
Al Boscaccio sembrava quindi impossibile che un bambino di due anni potesse ammalarsi.
Invece Chico si ammalò sul serio. Una sera, mentre stavamo per tornare a casa, Chico si sdraiò improvvisamente per terra e cominciò a piangere. Poi smise di piangere e si addormentò. Non si volle svegliare e io lo presi in braccio. Chico scottava, sembrava pieno di fuoco: allora noi tutti provammo una paura terribile. Il sole tramontava e il cielo era nero e rosso, le ombre lunghe. Abbandonammo Chico in mezzo all’erba e fuggimmo urlando e piangendo come se qualcosa di terribile e di misterioso ci inseguisse. «Chico dorme e scotta… Chico ha il fuoco dentro la testa!» singhiozzai io appena mi trovai davanti a mio padre.
Mio padre, lo ricordo bene, staccò la doppietta dalla parete, la caricò, se la mise sottobraccio, e ci seguì senza dir nulla, e noi camminammo stretti attorno a lui e non avevamo più paura perché nostro padre era capace di fulminare un leprotto a ottanta metri di distanza.
Al Boscaccio non moriva mai nessuno, e quando la gente seppe che Chico stava male, tutti provarono un enorme sgomento. Anche nelle case si parlava sottovoce. Per il paese bazzicava un forestiero pericoloso e nessuno di notte si azzardava ad aprire una finestra per paura di vedere, nell’aia imbiancata dalla luna, aggirarsi la vecchia vestita di nero e con la falce in mano.
Mio padre mandò a prendere col calessino tre o quattro dottori famosi. E tutti toccarono Chico e gli appoggiarono l’orecchio alla schiena, poi guardarono mio padre senza dir niente. Chico continuava a dormire e a scottare, e il suo viso era diventato più bianco del lenzuolo.
Mia madre piangeva in mezzo a noi e non voleva più mangiare; mio padre non si sedeva mai e continuava ad arricciarsi i baffi, senza parlare. Il quarto giorno i tre ultimi dottori, che erano arrivati insieme, allargarono le braccia e dissero a mio padre: «Non c’è che il buon Dio che possa salvare il vostro bambino».
Ricordo che era mattina: mio padre fece un cenno con la testa e noi lo seguimmo nell’aia. Poi con un fischio chiamò i famigli: erano cinquanta fra uomini, donne e bambini.
Mio padre era alto, magro e potente, con lunghi baffi, un grande cappello, la giacca attillata e corta, i calzoni stretti alla coscia e gli stivali alti. (Da giovane mio padre era stato in America, e vestiva all’americana.) Faceva paura quando si piantava a gambe larghe davanti a qualcuno. Mio padre si piantò a gambe larghe davanti ai famigli e disse: «Soltanto il buon Dio può salvare Chico. In ginocchio: bisogna pregare il buon Dio di salvare Chico».
Tutti ci inginocchiammo e cominciammo a pregare ad alta voce il buon Dio. Le donne dicevano a turno delle cose e noi e gli uomini rispondevamo: «Amen». Mio padre rimase a braccia conserte, fermo come una statua davanti a noi fino alle sette di sera, e tutti pregavano perché avevano paura di mio padre e perché volevano bene a Chico. Alle sette di sera, mentre il sole cominciava a tramontare, venne una donna a chiamare mio padre. Lo seguii. I tre dottori erano seduti pallidi attorno al letto di Chico: «Peggiora» disse il più anziano. «Non riverà a domattina.»
Mio padre non disse nulla, ma sentii che la sua mano stringeva forte la mia. Uscimmo: mio padre prese la doppietta, la caricò a palla, se la mise a tracolla, prese un grosso pacco, me lo consegnò. «Andiamo» disse.
Camminammo attraverso i campi: il sole si era nascosto dietro l’ultima boscaglia. Scavalcammo il muretto di un giardino e bussammo a una porta. Il prete era solo in casa e stava mangiando al lume della lucerna. Mio padre entrò senza levarsi il cappello.
«Reverendo» disse mio padre «Chico sta male e soltanto il buon Dio può salvarlo. Oggi, per dodici ore, sessanta persone hanno pregato il buon Dio, ma Chico peggiora e non arriverà a domattina.» Il prete guardava mio padre con gli occhi sbarrati. «Reverendo» continuò mio padre «tu soltanto puoi parlare al buon Dio e fargli capire come stanno le cose. Fagli capire che se Chico non guarisce io gli butto all’aria tutto. In quel pacco ci sono cinque chili di dinamite da mina. Non resterà più in piedi un mattone di tutta la chiesa. Andiamo!»
Il prete non disse parola: si avviò seguito da mio padre, entrò in chiesa, si inginocchiò davanti all’altare, giunse le mani. Mio padre stava in mezzo alla chiesa, col fucile sottobraccio, a gambe larghe, piantato come un macigno. Sull’altare ardeva una sola candela e tutto il resto era buio. Verso mezzanotte mio padre mi chiamò: «Va’ a vedere come sta Chico e torna subito».
Volai fra i campi, arrivai a casa col cuore in gola. Poi ritornai e correvo ancora più forte. Mio padre era ancora lì, fermo, a gambe larghe, col fucile sottobraccio, e il prete pregava bocconi sui gradini dell’altare. «Papà» gridai col mio ultimo fiato. «Chico è migliorato! Il dottore ha detto che è fuori pericolo! Il miracolo! Tutti ridono e sono contenti!» Il prete si alzò: sudava e il suo viso era disfatto.
«Va bene» disse bruscamente mio padre.
Poi, mentre il prete guardava a bocca aperta, si tolse dal taschino un biglietto da mille e l’infilò nella cassetta delle elemosine. «Io i piaceri li pago» disse mio padre. «Buona sera.»
Mio padre non si vantò mai di questa faccenda,ma al Boscaccio c’è ancora oggi qualche scomunicato il quale dice che, quella volta, Dio ebbe paura.
(grazie sempre a Giovannino Guareschi)