L’epilogo di tutto sta in una riga scarsa comparsa sul blog di Lawrence Lessig alle 12.09 ora della costa occidentale lo scorso 16 gennaio 2003: “with deep sadness, la Corte Suprema ha respinto il nostro ricorso contro la Sonny Bono.” Passo e chiudo. Il topo resta in gabbia per altri vent’anni.
Ora verrebbe da chiedersi : quale ricorso ? Che cos’è la Sonny Bono ? Chi diavolo è Lawrence Lessig ? Ma soprattutto cosa c’entra un topo con la Corte Suprema degli Stati Uniti ?
Salvatore Bono meglio conosciuto come Sonny, si deve considerare certamente un tipo eclettico. Se non si fosse schiantato con gli sci contro un albero un pomeriggio di gennaio del 1998, sulle montagne al confine tra California e Nevada, ce lo ricorderemmo oggi per i suoi trascorsi musicali e televisivi accanto all’ex-moglie Cher, o forse per quelle sue comparsate in telefilm cult degli anni ’70 come Love Boat, Charlie’s Angel, Fantasy Island o Chips. Invece gli è toccato in sorte l’abbinamento perpetuo nell’immaginario collettivo e nell’archivio della Library of Congress con una legge che puzza di lobby lontano miglia e che viene contestata da una buona fetta d’America.
Nella sua completa e chilometrica dizione è il Sonny Bono Copyright Term Extension Act. Ai fini pratici è la legge che nel 1998 estende il copyright di altri 20 anni. Tanto per dirla : gli eredi di un autore morto nel 1950 (o chi ne detiene i diritti) potranno continuare a godere i frutti del lavoro del caro estinto fino al 2020. Per le opere nelle mani delle corporation la protezione passa dai 75 ai 95 anni dal momento della prima pubblicazione.
Sonny era un sincero e accorato sostenitore del diritto d’autore, ma non era nè il primo nè il più influente congressman impegnato nel progetto di estensione del copyright. Era insomma una sorta di Cirami d’oltreoceano mandato avanti dai boss del Congresso e dalle ingombranti lobby di Hollywood. Con la differenza che, come diceva Francesco Guccini da Pavana, “gli americani con la lingua ci fregano” e Sonny indiscutibilmente suona molto meglio di Melchiorre. (del resto “facemmo tutta una tirata da Omaha a Tucson” non è la stessa cosa di “facemmo tutta una tirata da Piumazzo a Sant’Anna Pelago).
Dietro all’ex cantante si muovono vere e proprie “vacche sacre” dell’establishment. Il primo a presentare un disegno di legge nel merito è stato nel 1995 il senatore dello Utah Orrin G. Hatch, chairman del comitato sulla proprietà intellettuale. Il vero padre del Copyright Extension Act. Uno che bazzica dalle parti del Campidoglio dal 1976. Repubblicano che più repubblicano non si può: bianco, religiosissimo, abbasso le tasse, viva le pistole. Un unico strappo al copione : la vena poetica riversata come paroliere in sette album che presumibilmente non verranno trasmessi ai posteri.
Ma l’apparenza non inganni, il senatore ha uno spirito molto pratico ed è consapevole che qui non si sta parlando di quattro canzonette, ma della seconda voce dell’export americano. Un settore che da solo rappresenta il 6% del PIL e dà lavoro al 5% di americani , facendo degli Stati Uniti di gran lunga il primo produttore di copyright al mondo. Roba per cui, di questi tempi, ci si può organizzare anche una guerra.
La legge viene approvata definitivamente il 7 ottobre del 1998. Senza clamore, con un semplice “voice vote” e nel disinteresse dei media. Il grande pubblico americano in quei giorni era tutto concentrato sui maneggi sotto-scrivania di Monica Lewinsky e appena 24 ore prima la commissione giustizia della Camera aveva avviato la procedura di impeachment per William Jefferson Clinton. Pacche sulle spalle e brindisi solo nei consigli d’amministrazione, nelle stanze dei lobbisti e nel salotto di qualche sfaccendato nipote di un autore di successo, a cui veniva garantito un supplementare ventennio di rendita.
D’altro canto c’era di che gioire per gli sforzi : il settore “intrattenimento e affini” aveva dato molto a Washington : tra il 1990 e 1998 aveva spalmato tra democratici e repubblicani più di 93 milioni di dollari (tra il 2000 e il 2002 addirittura 105 milioni). Una bella cifra, ma non la più generosa in assoluto. Si sa, i media hanno altro da portare in dono ai politici: quella cosa chiamata consenso.
Chi non festeggia per niente è Eric Eldred. Editore per hobby, con la passione per i vecchi libri da pubblicare gratuitamente online dal salotto di casa sua nel New Hampshire.
Dal 1995 prova gusto e soddisfazione a poter diffondere e condividere col mondo letteratura sottoforma di bit. Niente di eclatante sia chiaro, cose un po’ fuori mano, magari a rischio d’oblio e tutte ormai libere da copyright, di pubblico dominio. Finchè un giorno scopre che qualcuno laggiù a Washington D.C. gli sta mandando a gambe all’aria l’hobby. Di colpo vede sfumare sotto gli occhi la possibilità di diffondere in Rete migliaia di opere prodotte negli anni venti e trenta del novecento. E quasi tutto per colpa di un topo. Non un sorcio qualunque e nemmeno di un topo in carne ed ossa.
Destino ha voluto che tra quella mole enorme di lavori “in scadenza” ci fosse anche un disegno animato in bianco e nero di 6 minuti scarsi dal titolo “Plane Crazy”. Il protagonista del cartoon, per far colpo sulla sua ragazza cerca di imitare goffamente Charles Lindbergh. E’ il 15 maggio 1928 : prima apparizione in pubblico di Mickey Mouse. Ora non ci vuole certo Archimede Pitagorico per capire la differenza che passa tra 2003 (1928+75) e 2023 (1928+95), soprattutto se ti chiami Walt Disney Company e con Topolino e compagnia sbarchi il lunario.
Ad Eric di Mickey Mouse in verità non importava un granchè, anzi non importava proprio nulla. Mal digeriva piuttosto il fatto che per salvare Topolino si ricacciassero nel cassetto per altri vent’anni migliaia di canzoni, libri, sceneggiature, film. Come dicono da quelle parti “che per arrostire il maiale si mandasse a fuoco tutta la casa”.
A questo punto del racconto un qualsiasi pensionato del New Hampshire avrebbe staccato la spina del suo computer e si sarebbe trovato un altro passatempo. Ma Eric Eldred è una di quelle persone con l’insana tendenza ad aggrovigliarsi le budella davanti ad un piccola o grande ingiustizia. Così sforna la pensata di portare il Congresso davanti a un giudice: a suo parere si sta violando nientemeno che la Costituzione degli Stati Uniti d’America.
A sostenerlo nell’impresa arriva un professore di legge ad Harvard (ora alla Standford Law School) : Lawrence Lessig , per gli amici Larry. Forse l’unico professore di legge al mondo che oggi possa vantare una nutritissima schiera di fan.
Un bel pacchetto di ammiratori se li era già conquistati nella causa “US vs. Microsoft Corp”. Il giudice Jackson lo aveva voluto come super consulente per capirci qualcosa nelle presunte pratiche monopolistiche di Bill Gates. Dalle parti di Redmond la cosa non era andata giù, perchè quel tipo smilzo e dallo sguardo sottile non dava garanzie di affidabilità. Dopo diversi attacchi personali, Microsoft otterrà da una corte federale l’estromissione di Lessig dal caso.
Eric e Larry (a cui si aggiungono via via associazioni per i cyberdiritti, editori, professori universitari e persino colossi industriali come Intel) ritengono che senatori e deputati abbiano violato il primo emendamento, che stabilisce che il Congresso :”promuove il progresso della scienza e delle arti, garantendo ad autori e inventori il diritto esclusivo sulle loro opere e scoperte per un tempo limitato.”. E la questione giuridica gira tutta attorno alle due ultime parole: “tempo limitato”.
Quella approvata nel 1998 è la quattordicesima estensione del copyright decisa da Washington da quando la norma venne introdotta nell’ordinamento nel 1790. Ogni volta, a scadenza regolare, il traguardo del “pubblico dominio” viene spostato in là di qualche anno o decennio. Un giochino beffardo.
Per Lessig e soci la “temporaneità ” si trasofrma di fatto in “eternità” e la Costituzione diventa carta straccia, una regoletta aggirarata con astuzia. Chi potrà impedire che nel 2020 non si decida di prolungare il copyright per altri 20 anni ? E poi di 20 ancora ? Ogni volta ci saranno “tanti buoni motivi”, come l’allungamento della vita media o “l’armonizzazione” con Unione Europea che già nel 1993 (e senza tanti dibattiti) aveva portato la protezione a 70 anni. Oppure un solo buon motivo : i soldi, tanti soldi.
Alle argomentazioni di Lessig annuisce soddisfatto il popolo della Rete, non i giudici. Ogni gradino una sconfitta; dritti fino alla Corte Suprema, dove Lessig compare il 9 ottobre del 2002 per esporre quelle che non sono semplicemente le sue ragioni “in punta di diritto”, ma una visione del progresso umano che il copyright eterno e senza limiti mette in serio pericolo.
Un progresso che si alimenta con la libera condivisione, con la rielaborazione, con la diffusione più ampia di opere ed idee. Un progresso che passa attraverso una mediazione tra diritto degli autori e il bene della comunità.
Visione bocciata dalla Corte Suprema per 7 giudici a 2.
Topolino, dicevamo, resta in gabbia e si porta dietro una bella compagnia da Hemingway a Gershwin, da “Luci della città” a “Happy Birthday to you” (si proprio la canzoncina dei compleanni !) e mille altri. Se ne riparlerà fra vent’anni. Nel frattempo niente lamenti o grande stupore se qualcuno comincia a tifare per Gambadilegno.