Estate 1992. Giovanni se ne sta dietro la porta socchiusa. Ascolta, non visto, Nino e Paolo che si intrattengono con discorsi un po’ strani su bombe, opere d’arte, merendine avvelenate e siringhe infette sulla spiaggia di Rimini.
Giovanni è Giovanni Brusca, “ù verru”, feroce capomafia di San Giuseppe Jato. Nino è Antonino Gioè, luogotenente di Totò Riina, morto suicida in carcere, appeso alle sbarre della sua cella con i lacci delle scarpe. E Paolo ‘ Chi è Paolo ? ‘
Sulle prime colline alla porte di Reggio Emilia, nelle giornate limpide di primavera lo sguardo corre veloce su tutta la pianura padana fino a sbattere contro i primi contorni delle Alpi.
Qui a due passi dal castello che fu di Matilde di Canossa, negli anni settanta la famiglia Bellini gestiva un albergo con annessa piscina coperta. Uno dei figli insegnava ai ragazzini del circondario che salivano lassù i trucchi per rimanere a galla. Un tipo un po’ spaccone, di quelli a cui piacciono le vanterie facili, come ce ne sono tanti. Oggi se chiedi a qualcuno di quei ragazzini, ormai uomini fatti, se avessero mai potuto immaginare il destino del loro ex istruttore, la risposta è uno sguardo smarrito. Sì, perchè nessuno, neanche il migliore dei giallisti avrebbe potuto indovinare allora, la strana storia di Paolo Bellini.
L’inizio della trama è ambientato in un’officina di provincia. E’ il 22 settembre 1976. Paolo entra e saluta tranquillo il fidanzato della sorella, poi gli scarica addosso 5 colpi di pistola e se ne va.
Viene spiccato un mandato di cattura per tentato omicidio (nonostante i colpi ravvicinati il meccanico non muore). Bellini non si trova. E’ l’inizio della latitanza di quello che sulle cronache locali diventerà “la primula nera”. L’attribuzione cromatica gliela appioppano per le sue frequentazioni con gli ambienti di destra, certificate nero su bianco in un paio di rapporti di polizia. Prime pagine per qualche tempo, poi niente sviluppi quindi niente articoli. Paolo Bellini non ha sulla coscienza neanche un cristiano spedito all’altro mondo e i giornali, che campano con ben altre miserie, mandano giù il sipario.
Nel marzo del 1981 a Pontassieve vicino Firenze viene arrestato per un traffico di mobili antichi un ragazzotto di nome Roberto Da Silva, cittadino brasiliano. Nelle foto segnaletiche si nota subito la singolare somiglianza con Lucio Battisti. Per accorgersi invece che quel tizio è sputato al centesimo Paolo Bellini ci vorranno altri dieci mesi.
Viene così fuori la latitanza in Sudamerica, meta preferita in quegli anni da settori dell’eversione di destra. Un’esistenza clandestina non proprio all’insegna di stenti e privazioni. In Brasile Bellini aveva avuto tutto il tempo di diventare padre una seconda volta e di far battezzare il figlio alla presenza del fratello e di un parroco emiliano appositamente giunti dall’Italia. Ci si domanda chi gli abbia coperto la fuga in quegli anni e la risposta torna frequente : servizi segreti. Una risposta inquietante anche alla luce di quello che accade sempre in quel 1981, quando viene indagato nell’ambito dell’indagine sulla strage di Bologna. Una affittacamere lo ricorda in città proprio nei giorni antecedenti alla strage. Lo spunto investigativo non porta a nulla. E’ la prima volta che entra nella storia d’Italia. Non sarà l’ultima.
Intanto comincia il suo peregrinare tra le carceri di mezz’Italia, quelle che anni più tardi chiamerà le sue “università del crimine”. Finisce a Sciacca e come compagno di cella si ritrova uno che battezza subito come “un uomo di massimo rispetto”. Quell’uomo è Antonino Gioè.
Di quell’amicizia si ricorderà all’inizio degli anni novanta una volta uscito dal carcere. Bellini si mette a lavorare per una ditta di recupero crediti e quando l’incaricano di riprendersi i soldi da alcune imprese siciliane gli viene in mente il vecchio amico.
Comincia così una strana e assidua frequentazione. Del recupero crediti si smette di parlare quasi subito. Quello che interessa a Paolo sono le opere d’arte. Per i suoi trascorsi si era fatto una fama di intenditore e la cosa interessava talvolta anche gli sbirri. Un maresciallo dei Carabinieri del Nucleo Tutela del Patrimonio Artistico gli aveva chiesto di interessarsi al ritrovamento di alcuni quadri rubati dalla Pinacoteca di Modena. Bellini non ci pensa due volte e chiede aiuto all’uomo “di massimo rispetto”.
E’ insistente. Spiega al mafioso che dietro il ritrovamento di un’opera rubata c’è sempre un accordo con lo Stato, uno scambio di favori. Millanta amicizie importanti e agganci giusti. Gioè è uno sveglio e intuisce al volo l’occasione. Prende tempo. Si interessa della faccenda, anzi interessa gli stessi vertici di Cosa Nostra, passando da Brusca per arrivare a zu Totò. Intanto saltano in aria Falcone e Borsellino.
Nino considera quel Bellini uno “strano”. Sente di odore di servizi e glielo sbatte in faccia “Mica lavorerai per i servizi segreti ‘”. Paolo nega.
Arriva il 41bis. Cosa Nostra ora sa cosa vuole come contropartita. Gioè consegna un bigliettino con sopra cinque nomi : è il gotha di Cosa Nostra dietro le sbarre. Benefici carcerari per pezzi da novanta come Bernando Brusca, Luciano Leggio, Pippo Calò.
Il gioco si fa pesante e saltano fuori gli strani discorsi di cui si diceva : mettere in ginocchio il turismo, una bomba sulla Torre di Pisa, le siringhe a Rimini, colpire i monumenti perchè quelli non li sostituisci come i giudici. A questo punto è difficile stabilire “chi abbia detto cosa”. Bellini sostiene che fu tutta farina del sacco di Gioè. Per Giovanni Brusca, il reggiano non era un mandante che diceva “fate questo o fate quello”, era più uno che dava suggerimenti “se fate questo succede quest’altro”. Per i giudici di Firenze l’effetto (consapevole o in inconsapevole) fu quello di “focalizzare l’attenzione di Brusca, Bagarella, Riina (e delle altre persone che ruotavano intorno a costoro) sui beni del patrimonio artistico nazionale.”
Bellini cerca coperture. Va dal maresciallo del Nucleo Tutela del Patrimonio e gli racconta tutto, anche la storia della Torre di Pisa: “con centinaia di morti sarebbe finito completamente il turismo italiano, perché gli stranieri non verrebbero più a visitare i nostri monumenti e le nostre cose. Per cui sarebbe un effetto effettivamente destabilizzante”.
Dice di essere disposto ad infiltrasi nella mafia, ma ha bisogno di un gesto di “accredito” : carcere meno duro almeno per uno dei nomi della lista. Il carabiniere risponde che non è nei suoi poteri e che riferirà più in alto.
Va così alla scrivania di quello che una volta era stato un suo diretto superiore, ora a capo del ROS : il colonnello Mori e (a quanto dice il maresciallo) gli racconta tutto. E’ la fine di agosto del 1992. Nove mesi dopo saltano in aria una dopo l’altra, via dei Georgofili, via Palestro, San Giorgio al Velabro, San Giovanni in Laterano. E’ l’attacco di Cosa Nostra al cuore del patrimonio artistico italiano. Quarantotto ore dopo gli ultimi attentanti, il 29 luglio del 1993 nel carcere di Rebibbia Antonino Gioè imprime in sette fogli fitti fitti i suoi ultimi pensieri su questa terra.
Ma a quel punto Bellini non è più della partita. I suoi contatti con la mafia si interrompono nel dicembre del 1992. La trattativa si era arenata. Cosa Nostra aveva trovato, a quanto pare, canali più affidabili per parlare allo Stato.
Quello fin qui raccontato potrebbe bastare per due vite intere, ma non per la primula nera. La sera del 3 giugno del 1999 una ventina di poliziotti armati fino ai denti fanno irruzione nel ristorante “il Capriolo”. Cercano, manco a dirlo, proprio lui. Tenta la fuga ma lo acchiappano in due minuti. E’ accusato di essere il principale responsabile dei delitti che hanno sconvolto Reggio Emilia tra il dicembre 1998 e l’aprile del 1999, catapultando la città emiliana in un clima di terrore. Due omicidi a sangue freddo, un tentato omicidio, un tentata strage con una bomba a mano in un bar. Era diventato, grazie al suo ultimo soggiorno nelle patrie galere, un killer dell’ndrangheta.
Si decide a vuotare il sacco e anche di più. Sulla scelta di pentirsi ci mette in mezzo Padre Pio. Ricostruisce le infiltrazioni della criminalità organizzata in città, indica i presunti mandanti degli omicidi, accusa i suoi complici. Ammette omicidi lontani nel tempo. Ma non si ferma qui, e riapre capitoli misteriosi e dolorosi.
Confessa ai giudici l’omicidio di Alceste Campanile, rimasto irrisolto dal quel 13 giugno 1975, quando lo studente universitario di 22 anni e militante di ‘Lotta Continua’ (con un passato ‘a destra’) fu trovato cadavere sulle rive del fiume Enza.
Poi parla anche di Bologna. A modo suo, con quello stile che fa sembrare ogni suo verbale la trama di un improbabile spy-game. ‘Forse, può darsi che io abbia avuto un contatto con un servizio segreto, si, può darsi, effettivamente. Dovevo avere un contatto con un uomo dei servizi segreti, non ci sono andato perché io nella trappola dei servizi segreti non ci sono mai caduto’. Tramite di quell’incontro doveva essere suo padre che in punto di morte gli confida : ‘quello era un incontro importante. Sai perché era importante’ Perché qualcheduno voleva farti inserire nel sistema per scoprire se era vero che Bologna era un effetto di Ustica’.
Difficile dar credito alle sue parole, ma se questi siano accenni di verità, depistaggi o semplicemente le ennesime vanterie di quello spaccone che una volta insegnava ai ragazzini a stare a galla, forse solo Padre Pio può dirlo.