Dietro al cartoncino della “Premiata Fotografia Artistica Guido Lazzaretti” con studi a Reggio Emilia e filiali a Correggio e Scandiano, c’è una data.
10-2-19.
Dieci febbraio, qualche giorno fa.
1919, cento anni fa.
È scritta a mano la data, su un bordo, insieme ad una manciata di parole che N ha lasciato a G.
N ha gli occhi scuri, i capelli lunghi e un sorriso che non è un sorriso. E’ qualcosa di più.
C’è da immaginarselo il maestro Guido Lazzaretti, fotografo/pittore che dei ritratti ha fatto un florido mestiere: “non rida signorina, cortesemente non sorrida e guardi dritto verso di me“.
La fotografia aveva ancora un certo grado di solennità; come scriveva Mark Twain “una fotografia è il documento più importante e non c’è nulla di peggiore che passare alla posterità che con uno sciocco e stupido sorriso fissato sulla faccia per l’eternità“. Andava così.
C’era di mezzo anche una faccenda tecnica: i tempi di esposizione lunghi, che a stare fermi, stampati con il sorriso in faccia, veniva faticoso.
Ma quello lì di N è un sorriso che non è un sorriso. E’ qualcosa di più.
G e N s’erano conosciuti da poco più di un anno, da quando lei era scesa dal treno a Reggio con addosso i suoi 16 anni e una valigia, in compagnia di altri 1.500.
Fuggiva dalla guerra N, fuggiva dalla Carnia, da Ampezzo dove ora c’erano gli “striaci”.
E arrivava nell’Emilia profonda. Fai un po’ te.
Era una profuga N.
Perché sì, siam stati anche un popolo di profughi cent’anni fa, ma non ce lo ricordiamo più.
A Reggio e provincia arriveranno nel tempo fino a 7.000 profughi friulani. Un esodo disordinato, a fatica gestito. Per mesi, dopo Caporetto, le pagine dei giornali riservavano uno spazio a chi cercava i propri familiari dispersi nella fuga lungo la penisola.
Ma a sedici anni, nel mezzo della guerra, lontana da casa, N riuscì a fare una cosa che a sedici anni ti viene benissimo: innamorarsi.
Quegli amori primi che riempiono tutti gli attimi, le ore, i giorni.
Quegli amori totali che nascono improvvisi e paiono dover sfidare l’eternità.
Quello di N è un sorriso che non è un sorriso. E’ qualcosa di più.
N tornò a casa. Per qualche tempo continuò a scrivere a G.
Poi la vita si rimise in cammino.
G si innamorò di nuovo. Uno di quegli amori che riempiono non solo gli attimi, ma i giorni, i mesi e gli anni.
Quegli amori maturi che bruciano lenti e scaldano l’anima, che riempono la vita di altra vita, di figli che crescono, di nipoti che nascono.
Quegli amori tutti d’un pezzo, a cui l’eternità fa manco il solletico.
Però quello di N era un sorriso, che non era un sorriso. Era qualcosa di più.
Era la magnifica illusione dell’eterna felicità.
E anche per quello forse che quella fotografia e quel sorriso sono stati conservati con affetto e con cura per tanti anni, fino all’ultimo dei giorni, nell’angolo dei ricordi piccoli e preziosi di G, mio nonno.