Scherpa

Riccardo Ceroni lo conoscono in pochi.

Quasi tutti conoscono Scherpa, che si chiama così da quella volta che finita la guerra la madre lo mandò a scuola con dei vecchi scarponi da sciatore comprati da “Benzina”, il calzolaio del paese, per 300 lire (risparmi di parecchi sacrifici). Il Bersagliere e Pàtachin, suoi amici, ci misero dai venti ai trenta secondi ad urlargli dalla finestra della scuola “Ariva Scarpazò !”

Succedeva così, in tutti gli angoli di questa terra pronta a prendersi sul serio quello che basta: il nome all’anagrafe ti serviva solo per il mondo grande di fuori, una mondo fatto spesso di carta e di timbri. Per tutto resto, per il tuo mondo piccolo, per la vita di tutti giorni, il battesimo vero era il fulmineo, estemporaneo, casuale colpo di genio di qualche bischero che ti girava intorno.

A Scherpa nell’ultimo anno e mezzo il torrente gli ha portato via l’orto, l’amato e sterminato orto, per tre volte.

L’orto, l’officina garage con gli attrezzi, le robe strane sparpagliate in giro e il tornio.

Andava a scuola Scherpa ma era uno zuccone. Gli piaceva invece star dietro a suo zio Fredino gran maestro di botanica popolare tra innesti e potature. A dieci anni e mezzo finì anche a fare il garzone in bottega. E’ da lì che viene il tornio.

Scherpa era uno zuccone a scuola, ma in quinta elementare in paese arrivò il maestro nuovo. Si chiamava Angelo Callegari e aveva quest’abitudine: mezz’ora prima che suonasse la campanella smetteva la lezione e si metteva a leggere Pascoli, Carducci, Pirandello.

Dice Scherpa che è stato in quella mezz’ora lì che la vita gli è cambiata, che il mondo piccolo e quello grande han cominciato a scrutarsi, a guardarsi in faccia, a fare a pugni ed infine a far pace.

Riccardo Ceroni detto Scherpa è uno di quelli che nei piccoli paesi è considerato “l’originel” che è una parola che contiene nel bene e nel male un po’ tutto, come l’officina di Scherpa che c’ha dentro attrezzi del passato, una collezione di macchine da scrivere e grammofoni antichi o la sua casa sommersa di libri, dischi (seimila) e le sue opere d’arte in legno figlie del tornio.

O come la sua vita fatta di fughe per vedere il mondo, trovare lavoro in mezza Europa o navigare sei mesi l’anno in mezzo al Mediterraneo con quella barca battezzata “La Natura” e ormeggiata per vent’anni in quel porto esotico e piratesco che è Marina Romea.

C’ha quasi lasciato le penne in mare Scherpa, dalle parti della Sicilia. Dice che ad un certo punto ha pensato “Pover patàca, con tutto il posto che c’è, venire a morire in mezzo al mare in Sicilia”. Si salvò e vendette la barca, forse non tanto per lo spavento, ma per quella consapevolezza: “Scòlta bein ignorant, te ormai sei vecchio, il mare vecchio non lo diventa mai.”

Ha girato parecchio Scherpa, visto una buona parte di mondo e le sue meraviglie, ma dice che ogni volta che cominciava a vedere il profilo ed Mudgiana, gli si riempiva il cuore.

Tra mille cose della sua casa Scherpa conserva anche un grosso tronco “ed fioraverd” che poi è il bosso. Una pianta piuttosto comune che cresce lenta. Può crescere per centinaia di anni.

Un giorno al pover Momo, un suo amico, gli ha portato a casa due che han studiato da botanici e che hanno stimato il tronco vecchio di 1.500 anni. Lo volevano comprare ad una bella cifra per metterlo in un museo.

Scherpa ha gentilmente rifiutato: mi spiace l’unica cosa di cui non ho bisogno “le i sold”. Però lasciatemi il vostro indirizzo che quando muoio nel testamento lo lascio al vostro museo.

Riccardo Ceroni detto Scherpa vive oggi un altro capitolo della sua lunga ed intensa vita: centinaia di migliaia di persone lo vedranno di sfuggita dentro lo schermo del loro smartphone in un breve video dove ringrazia con parole sue un gruppo di ragazze e ragazzi intenti a spalare via il fango dell’ultima onda a Modigliana.

Sorridiamo, ci commuoviamo, condividiamo.

E poi scrolliamo al video successivo, quello dove un tizio affetta dei gelati comperi per metterli in un panino.

Riccardo Ceroni detto Scherpa tornerà, dopo i suoi quindici minuti di non cercata celebrità, a vivere la propria vita fatta di orto, tornio, musica, parole ed arte.

La normale e straordinaria vita d’un “originel” che la grande piena c’ha portato a valle.

Finché un giorno, il più lontano possibile, il tronco millenario del bosso finirà in un museo.

Il caso Ilaria S.

Nel grande e spesso inutile rumore di fondo che il giornalismo italiano produce, ho cercato di mettere insieme un po’ di fatti ed elementi, per cercare di capire io per primo (o tentare di capire per quello che si può) il caso Ilaria S.

Garázdaság

Fa freddo l’11 febbraio, ma c’è un po’ di sole tra le nuvole.

E’ quasi ora di pranzo.

Cinque amici sul marciapiede devono decidere dove andare a mangiare un boccone.

In un bar poco distante vedono dei tizi tutti bardati.

Una roba strana anche per loro che lì ci vivono.

Qualcuno forse scatta una foto con il telefono.

Sono quasi le 13.00. Il posto l’hanno deciso e si incamminano.

A tavola non c’arrivano.

Prima e d’improvviso arriva l’assalto di quei tizi tutti bardati.

Spinte, insulti, pugni, calci in faccia: “se non la smetti di urlare ti ammazzo“.

Uno degli amici, tre uomini e due donne, riesce a correre via qualche metro e a richiamare l’attenzione della polizia lì vicino.

C’è un sacco di polizia quel giorno per strada.

I tizi scappano, ma non vanno lontano.

I referti dell’ospedale alla fine parlano di ferite al cranio, commozione cerebrale, mandibola fratturata, naso, denti ed ossa rotte.

La polizia ferma tre persone.

Nella conferenza stampa, due giorni dopo, a domanda del giornalista il responsabile della polizia risponde che i tizi tutti bardati sono stati scarcerati dopo 48 ore: rimangono indagati a piede libero per lesioni personali e per “garázdaság” che è traducibile come una via i mezzo tra “disordini” e “disturbo della quieta pubblica”.

“No” ribadisce, non sono indagati per “közösség tagja elleni eroszak”.

Loro no.

Per quella roba lì sono invece stati arrestati alle 16.25 dell’11 febbraio, tre ore dopo, 4 persone.

Rimangono in custodia perché accusate, tre di loro, di lesioni personali potenzialmente mortali e appunto di “közösség tagja elleni eroszak”.

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Una cosa fragile e preziosa

Da quindici anni (o qualcosa di più) mi porto dietro una storia, che è poi una piccola storia personale dentro una più grande e collettiva.

E’ una storia che uso come una specie di libretto delle istruzioni, per tentare di maneggiare con cura, due faccende comuni e quotidiane, ma fragilissime e preziose, come la verità e la vita.

La nostra e quella degli altri.

(è lunga, portate pazienza).

David, piacere.
“Ciao, sono Lorenzo”.

Parlammo del più e del meno, del piatto di riso, dei sentieri del Nepal.

Lui scendeva, noi salivamo.Il veloce tempo di un pranzo al sole.

Faccio il giornalista, sono qui per preparare un libro.

Forse conosci il primo che ho scritto. Titolo e mio buio totale.

“Mi ricorda qualcosa in effetti”.

Stavo mentendo con spudorata gentilezza.

Qualche settimana dopo, tornato dall’Himalaya, entro nella Pilgrims Book House, un’affascinante e storica libreria di Kathmandu, purtroppo distrutta da un incendio nel 2013. Il libro di David c’era.

C’era per forza: da un anno era nella classifica dei libri più venduti stilata dal New York Times e ci sarebbe rimasto per altri tre, fino al 2011. Un piccolo record.

Non lo lessi subito. Molte cose si ammucchiavano e per qualche mese lo dimenticai in fondo alla lista delle cose da fare. Poi una sera ho aperto la copertina e ho divorato 350 pagine in un paio di giorni.

Da tempo non leggevo una storia così ispirata e coinvolgente. E se qualcuno, sciaguratamente, mi chiedeva consiglio su qualcosa da leggere dicevo: leggi questo, non te ne pentirai.

Quattro anni dopo il nostro casuale e veloce incontro sui sentieri del Nepal, poco dopo mezzogiorno del 15 novembre 2012, David Oliver Relin si piazza davanti ad un treno in corsa a Portland, Oregon.

Aveva smesso di prendere i suoi antidepressivi.

Da un anno e mezzo il libro che l’aveva reso un autore di grande successo, lo stavo piano piano schiacciando.

Nel 2009 Barack Obama ha vinto, non senza polemiche, il Nobel per la Pace.

Forse ve lo ricordate.

La parte in denaro del premio è stata donata a diverse associazioni no-profit americane. Centomila dollari furono destinati anche al “Central Asia Institute”, una Ong fondata nel 1996 da un ragazzone piuttosto intraprendente e dai modi spicci.

Si chiama Greg Mortenson.

Il nome forse vi dirà poco, ma per quattro anni buoni, Greg Mortenson è stato per l’opinione pubblica americana un eroe.

Un vero eroe.

Un eroe che costruiva scuole. Scuole soprattutto per bambine e ragazze.

Scuole in posti piuttosto singolari per un americano: Pakistan e Afghanistan. Nell’America in guerra con il fantasma di Bin Laden, la strategia di Greg era: “meno bombe, più scuole”.

Nel 2007, nel giro di qualche mese, la sua piccola e quasi domestica associazione con base a Bozeman nel Montana, viene inondata di milioni di dollari in donazioni.

Centinaia di scuole americane aderiscono al suo programma “Pennies for Peace”.

Era l’America profonda, stanca e provata dalla lunga guerra al terrore iniziata da George W. Bush, che cercava una strada diversa verso la speranza.

Ed era l’effetto di un libro di grande successo che raccontava la sua storia.

Sì, era quel libro: “Three cups of tea” (Tre tazze di tè) di David Oliver Relin e Greg Mortenson.

Per caso o per il sottile gioco del destino nella mia libreria era finito a pochi centimetri da un vecchio libro di Jon Krakauer (l’autore di “Into the Wild” e “Aria Sottile”).

Nell’aprile del 2011 “60 minutes” un’autorevole e seguita trasmissione della CBS, attraverso l’inchiesta giornalistica di Krakauer demolì, in un’ora, il libro di David ed in particolare il suo protagonista e co-autore Greg Mortenson.

L’accusa era di aver romanzato o inventato diversi episodi della vita di Greg, di aver ingigantito le opere e l’impatto sociale del “Central Asia Institute”, di aver speso un sacco di soldi per promuovere i propri libri invece di costruire scuole.

Nel giro di una notte Greg Mortenson non sarebbe stato più l’eroe di nessuno.

Sottoposto ad inchiesta, fu costretto a dimettersi da tutti gli incarichi direttivi dell’associazione che aveva fondato e a versare 980.000 dollari, ipotecando la sua casa e rimanendo come semplice dipendente.

Tutti gli incontri pubblici, i seminari, gli inviti e le presentazioni dei libri annullate.

Della figura pubblica di Greg Mortenson, per scelta e necessità non rimase nulla o quasi.

Ho conosciuto Annalisa e il suo sorriso facile una sera di fine settembre del 2011.

Mamma, medico e alpinista, Annalisa aveva appena condiviso con mio fratello l’esperienza sportiva ed umana del Gasherbrum, un ottomila in Pakistan.

Se esiste un mal d’Africa esiste certamente anche un mal d’Himalaya (e Karakorum): una specie d’attrazione fatale, che ti fa dimenticare tutte le fatiche e le privazioni e che prima o poi ti riporta ai piedi di quelle incredibili montagne.

Annalisa ha preso quel male e appena può torna là.

Nel giugno del 2012, mentre si trovava a Skardu sulla via per il ghiacciaio del Baltoro, qualcuno bussa alla porta della sua camera.

Davanti a lei si presentano due uomini e una bambina.

Sakina ha 5 anni, non sorride mai e suo padre dice che fa sempre fatica a respirare.

Annalisa, visitandola brevemente, diagnostica un serio problema cardiaco.

Il secondo uomo nella stanza, quello che accompagna padre e figlia, è un ragazzone un po’ invecchiato avvolto negli abiti tradizionali del Baltistan.

Non è però pakistano, è uno yankee del Montana.

Greg Mortenson, uscito dalle luci dei riflettori e decaduto dal ruolo ingombrante di eroe senza macchia, era tornato a fare quello che più amava: provare ad aiutare gli altri.

Greg, che ha lasciato i suoi incarichi con il “Central Asia Institute” per dedicare più tempo alla famiglia, è una persona fuori dall’ordinario, con tutto quello che comporta nel bene e nel male.

In 30 anni ha fatto molto per l’istruzione e per la pace.

E insieme a questo “molto” ha commesso un sacco di errori.

E’ sopravvissuto, anche fisicamente, a quegli errori.

Ma non tutti sono Greg.

Qualcuno è anche David.

Nel 2012, pochi mesi dopo la prima visita, Annalisa ha raccolto i fondi per far operare Sakina in Italia.

Oggi è tornata in Pakistan e grazie ad una raccolta fondi dall’Italia nel 2022 ha iniziato le scuole superiori.

Annalisa e Sakina si sono riviste di persona nel 2023, dopo dieci anni, in una piccola stanza di un ostello di Skardu davanti ad una pizza.

Hanno sorriso e si sono abbracciate.

Perché la vita come la verità è una faccenda di tutti i giorni, fragilissima e preziosa.

strage bologna prarolo

Quell’altro orologio fermo alle 10.25

Prarolo è una manciata di case piantata in mezzo ai campi di riso del Piemonte, una piccola comunità di 700 anime, che a girarla a piedi tutta ci vogliono quindici minuti.

Ad uno sputo da Prarolo, meno di 100 metri in linea d’aria, un altro mondo corre sull’autostrada A26. Un altro mondo appunto, un altro tempo, un’altra velocità.

Perché quasi sempre è una questione di tempo.

Sul binario 4 il treno è in ritardo, come molti altri.

C’è un gran casino.

E’ agosto, è normale.

Fa un gran caldo.

Torni dalla Riviera, dove le notti si allungano, ma le vacanze finiscono sempre troppo presto.

Guardi l’orologio. Madonna che caldo.

Il tempo di andare a prendere qualcosa da bere al bar e torno.

C’è la fila.

Perché quando i treni sono in ritardo i bar lavorano un sacco e le sale d’attesa si riempiono.

Pazienza, ci vuol pazienza.

Aspetti. Tanto ormai due minuti in più, due minuti in meno.

Guardi l’orologio.

Prarolo è una manciata di case piantata in mezzo ai campi di riso del Piemonte, una piccola comunità di 700 anime, che a girarla a piedi tutta ci vogliono quindici minuti. Non era poi così diversa quarant’anni fa. Perché il tempo in provincia scorre più lento.

Al cimitero di Prarolo, sulla lapide di Rossella morta a 19 anni, c’è un piccolo orologio da polso.

E’ fermo.

Le lancette immobili segnano quell’ora lì: le 10.25.

E’ l’ora esatta di quel giorno d’agosto, uguale a tanti altri e per sempre diverso, in cui faceva un gran caldo, i treni erano in ritardo e il tempo maledetto della morte incrociò, puntuale, quello della vita.

Muoiono solo i vecchi (perlopiù pensionati)

Il mercato dell’indignazione è saturo, perché anche se la domanda è alta, l’offerta è onestamente altissima, a volte smaccatamente sproporzionata. Tendo quindi a tenermene lontano. Di solito.

“Muoiono solo i vecchi” è una cosa che abbiamo declinato a voce alta o nei pensieri più nascosti più o meno tutti, una volta almeno, da quando è cominciata.

Leggi i bollettini e ti dici: si vabbè ma questo aveva 100 anni. Oh quest’altra aveva 95 anni, il suo l’ha fatto.

Il meccanismo s’inceppa per qualche istante quando incroci qualche cifra che ancora ti puoi giocare al lotto: vabbè questo 65, ma sono eccezioni, tipo quando esce il 42 sulla ruota di Bari.

“Muoiono solo i vecchi” l’abbiamo pensato e magari detto alla leggera o ponderando bene in cerca di una soluzione in buona fede.

Poi ci sono quelli che, non avendone più di soluzioni, c’aggiungono leggiadri “perlopiù pensionati” e “non indispensabili allo sforzo produttivo”.

Vabbè, sarebbe piuttosto facile aggiungere dopo “sforzo produttivo” “del Terzo Reich” ma la reductio ad Hitlerum ce la risparmiamo, che non ne vale la pena.

In verità “muoiono solo i vecchi” è anche una mezza allucinazione.

Perché se gli ospedali vanno i tilt, i letti finiscono, muoiono anche i “non più giovani” e poi a ruota anche quelli il cui numero normalmente non esce mai.

E allora proteggiamo i vecchi e noi continuiamo a vivere, a produrre, a mantenere in piedi il sistema !

Sembra un buon piano, anche quando non è proprio spinto dalle migliori intenzioni.

Però è un poco complicato e arriva fuori tempo massimo.

Gli anziani stiamo tentando di proteggerli dall’inizio, come famiglie ed istituzioni, senza riuscirci veramente fino in fondo.

Il motivo è abbastanza semplice: quelli nei bollettini non sono numeri del lotto, sono persone.

Sono madri, padri, nonni, zie sorelle e fratelli.

Sono nomi e cognomi.

Sono storie e affetti, perlopiù, fragili.

Sono pezzi di vita.

La nostra vita.

Reggio e l’immunità di gregge

Quanti reggiani sono stati contagiati finora da Covid-19 ?

Se cercate la risposta più precisa possibile vi tocca attendere i 150.000 test sierologici a campione che il commissario Arcuri aveva assicurato con inizio il 4 maggio. Ma come è noto Domenico Arcuri è sempre un grande ottimista sulle scadenze. In tutti i casi sicuramente toccherà pazientare alcune settimane per i risultati.

Se cercate la risposta più breve, anche solo come ipotesi, è questa: tra il 5% e 11% della popolazione.

La risposta più lunga invece è quella che segue.

Il modo più efficiente che abbiamo al momento per stimare la cosiddetta “prevalenza” del contagio in una popolazione è con il parametro della letalità plausibile, ovvero quante persone muoiono sul totale dei contagiati. Le stime più precise, in base alle classi di popolazione italiana, dicono che la letalità in condizioni normali è dell’1,15%: cioè su 1.000 contagiati purtroppo perdono la vita 11 persone.

Da questo dato, con un calcolo a ritroso, possiamo stimare quanto si è diffuso il contagio al di là dei numeri ufficiali rilevati ogni giorno, che gli stessi esperti ed autorità considerano da tempo del tutto sottostimati.

Dall’inizio dell’emergenza i decessi di cittadini residenti in provincia di Reggio sono arrivati a quota 517.

Ci sono però due problemi con questo dato.

Il primo è che a causa dell’emergenza abbiamo perso non solo la capacità di contare quante persone davvero si ammalavano, ma anche quante morivano.

Gli ultimi dati Istat di un paio di giorni fa si sono fatti decisamente più completi e confermano che i decessi in provincia di Reggio a marzo 2020 rispetto alla media dei cinque anni precedenti sono aumentati di più dell’80%. Questo aumento è solo in parte giustificato dai decessi di positivi a Covid-19.

I dati parziali di aprile confermano questo trend. La stima (solo stima al momento) è che in marzo ed aprile ci siano stati altri 300 decessi, oltre a quelli diagnosticati correttamente. Sono tutti legati direttamente o indirettamente all’epidemia ? Qual’è la parte legata allo stress sanitario ?

Per calcolare una valore limite massimo, ipotizziamo di attribuire tutto questo eccesso di decessi all’epidemia.

Quindi possiamo stabilire un minimo ed un massimo: 517 e circa 850.

Il secondo problema sono i decessi avvenuti nelle residenze per anziani, luoghi ristretti e di grande fragilità dove il contagio ha avuto facile diffusione e purtroppo conseguenze drammatiche.

Nelle residenze per anziani di Reggio e provincia erano ospitate meno di 3.000 persone. Un parte numericamente molto piccola rispetto alla popolazione generale della provincia (532.000 abitanti). Ma dei 517 decessi reggiani, il 37% (circa 200) è avvenuto qui.

Non considerando quindi il microcosmo delle residenze per anziani i decessi nella provincia di Reggio vanno da un minimo di 317 ad un massimo ipotetico di 650.

Applicando i valori di letalità plausibile, i contagi stimabili nella popolazione generale (escluse le RSA) vanno da circa 28.000 a 57.000, ovvero dal 5,3% al 10,8%. 

E quindi, anche con tutte le approssimazioni del caso, il gregge è molto molto lontano.

La prevalenza della testa quadra*

La provincia di Reggio Emilia è la sesta in Italia per casi registrati di Covid-19, preceduta solo da metropoli come Milano e Torino, o dai grandi focolai di Bergamo, Brescia e Cremona. Rapportata alla popolazione è quarta nella stessa classifica. Prima per contagi in Emilia Romagna.

Ma i numeri che determinano quelle classifiche sono una grande illusione.

Come è arrivata Reggio lassù, quasi in vetta alla classifica degli appestati ?

Semplice, facendo più tamponi. Ma non da subito. Fino al 25 marzo si facevano pochi test: quando andava bene un centinaio, che poi venivano spediti al laboratorio di Parma o a Bologna per essere analizzati, con tutti i ritardi del caso.

Dal 25 marzo invece la provincia è diventata autonoma con un laboratorio accreditato nel proprio ospedale, con un investimento in nuove strumentazioni e con un’organizzazione del personale che permette di fare in media tra i 600 e 700 test al giorno.

I dati forniti il 9 aprile dall’azienda sanitaria evidenziano anche un quadro qualitativo e non solo quantitativo dei tamponi. Non sono tamponi “a tappeto”, ma mirati e con priorità specifiche:

circa 5800 tamponi eseguiti in ospedale.
circa 700 tamponi eseguiti negli ambulatori covid.
circa 850 tamponi eseguiti nelle residenze protette per anziani.
circa 1650 tamponi nei drive through.
circa 300 tamponi a domicilio.
circa 300 per la sorveglianza sanitaria degli operatori.

La parte maggiore dei tamponi è stata “spesa” finora in ospedale, per verificare chi è ricoverato e quindi in situazione più complicata. La seconda fetta è quella per “bollinare” la guarigione con il sistema dei drive through. La terza è per mappare la situazione sul fronte più fragile: le residenze per anziani. La quarta negli ambulatori e nelle case, per stanare sul territorio la malattia.

Con il tempo le percentuali si stanno spostando dai test ospedalieri a quelli sul territorio. Anche per questo Reggio ha di gran lunga la percentuale di ospedalizzazione dei casi Covid-19 più bassa in regione, con il 70% dei malati in isolamento domiciliare.

Reggio è quindi una provincia colpita (data la vicinanza con il primo grande focolaio lombardo) ma non travolta. Ed è anche un ottimo esempio di come le bussole, in questa tempesta, siano impazzite.

La prevalenza è il termine tecnico che identifica un fattore chiave: quanti contagiati ci sono in un territorio.

Con certezza non lo sappiamo e per davvero non lo sapremo mai.

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In discesa, con un piano

Le grandi montagne hanno il valore degli uomini che le salgono, altrimenti non sarebbero altro che un cumulo di sassi“.

Non so se c’avete idea di cosa sia un ottomila.

Io ne ho una conoscenza diretta minima e parziale e una un po’ più ingombrante, indiretta e di letteratura.

Dalla prima esperienza, quella diretta e minima, ho imparato un paio di cose.

La più importante credo sia questa faccenda qui: mille metri è un conto, dai cinquemila in su un altro. Per te e per gli altri.

Possiamo essere stimabili ed affidabili esseri umani sul livello del mare, ma esserlo un po’ meno quando il numeretto della saturazione dell’ossigeno scende giù verso l’ignoto.

La differenza a quel punto sta in gran parte in quello che ti ha portato fin lì. A come hai preparato quel momento e tutto il resto.

Ecco un’altra cosa che ho imparato: che i minuti possono essere ore e giorni, possono essere mesi od anni.

Quindici minuti.

Quindici minuti, che sono di per sé un’eternità, è il tempo passato da Edmund Hillary e Tenzing Norgay quella prima volta sull’Everest.

Quindici minuti dopo mesi di preparazione, anni di tentativi, una vita addosso alle montagne.

Qualsiasi spedizione sotto i giganti della Terra, dalla più piccola alla più imponente, ha bisogno di organizzazione.

Di ruoli e di compiti.

C’è bisogno di portarsi dietro cibo, materiali ed attrezzature. Quelle giuste, quelle adatte.

C’è bisogno di trovare i fondi per comprare quelle attrezzature e c’è bisogno di persone che le portino fino sotto la montagna.

C’è bisogno di qualcuno che sappia il fatto suo di previsioni meteo, che possa dirti qual’è il momento opportuno, la “finestra” giusta.

C’è bisogno di collaborazione e diplomazia, nella spedizione e tra le spedizioni, che spesso vengono da lingue e culture diverse.

C’è bisogno di tecnica e c’è bisogno di umanità.

C’è bisogno di chi sale, ma anche di chi decide.

C’è bisogno di un piano.

Se c’è, è ora di tirarlo fuori.

Perché ogni montagna insegna che la discesa è la parte più difficile di una salita.

L’alpinista più bravo ? Quello che torna a casa“.

E poi speriamo fuori casa, a cercare un altro mucchio di sassi a cui dare valore.

(c’è bisogno anche di un po’ di culo, eh. Sulle montagne e nella vita)-

Quei morti fantasma al tempo del Covid19

Al 31 marzo il numero dei decessi tra cittadini residenti nella provincia di Reggio per coronavirus ammontava alla dolorosa cifra di 208.

E’ però ormai certo che si tratti di un numero approssimato in difetto.

Una delle conferme arriva dall’elaborazione di alcuni dati forniti oggi da Istat sui decessi totali fino al 21 marzo di quest’anno.

Confrontando i decessi con quelli degli anni precedenti è purtroppo facile notare una grande differenza in termini numerici e percentuali, che non è spiegabile con i soli decessi ufficialmente registrati per Covid19.

I dati Istat riguardano 25 comuni che rappresentano circa il 45% della popolazione totale.

I dati dei decessi tra capodanno e l’inizio di marzo sono in linea con quelli delle annate precedenti, se non inferiori.

I dati di marzo, inizio dell’epidemia nella provincia, segnano invece un’impennata: da 144 del 2019 a 246 del 2020, un aumento di 102 unità pari al 70% di incremento.

Fino al 21 marzo (data in cui terminano per il momento i dati raccolti da Istat) i decessi registrati per covid19 nei 25 comuni erano solo 40.

I dati di incremento percentuale per il periodo 8 – 21 marzo (il primo decesso covid in provincia di Reggio si è registrato ufficialmente l’8 marzo) sono ancora più marcati.

E’ quindi del tutto realistico ipotizzare che stiamo ignorando un numero molto alto di decessi legati all’epidemia.

Con i prossimi dati aggiornati al 31 marzo il quadro sarà più completo.

Quella volta con l’Aids

Nel luglio del 1983 su un piccolo quotidiano dell’India, il Patriot, fu pubblicata una lettera non firmata dal titolo “L’Aids può invadere l’India”. A scriverla una “gola profonda” che si identificava come un noto scienziato ed antropologo americano.

Nell’articolo si faceva riferimento al virus dell’HIV come ad un’arma biologica creata nel laboratorio statunitense di Fort Detrick in Maryland. Gli esperimenti americani, si affermava, continuavano anche nel vicino Pakistan, mettendo a rischio anche l’India.

Nell’estate del 1986, tre anni dopo, il professor Jakob Segal, dell’università berlinese di Humboldt, diffuse un rapporto dal titolo “Aids: la sua natura e la sua origine” dove si sosteneva che il virus dell’HIV fosse l’esito di una sintesi artificiale tra altri due retrovirus, Visna (un virus presente nelle pecore) e l’HTLV-1 (un retrovirus umano) effettuata nel laboratorio di armi biologiche di Fort Detrick in Maryland. Il nuovo virus si era diffuso fuori dal laboratorio per sbaglio, tramite i primi test effettuati su volontari reclutati tra i carcerati.

Nell’ottobre del 1986 la tesi del professor Segal fu ripresa dal tabloid britannico Sunday Express in un articolo dal titolo “L’Aids fabbricato in laboratorio”. Da lì la notizia cominciò il giro del mondo in ottanta nazioni e trenta lingue.

Finì anche per creare diverse tensioni diplomatiche, non solo tra Stati Uniti e Unione Sovietica, ma anche tra Usa e molti paesi africani, che si erano sentiti colpevolizzati dall’accostamento del continente come origine primaria dell’Aids.

Poi il tempo passò.

Il Muro di Berlino venne giù e Vasilij Nikitič Mitrokhin decise di fare un salto all’ambasciata britannica a Riga portandosi dietro la sua preziosa cassa strapiena di fogli e appunti.

Vennero fuori così moltissime storie di spionaggio e tra questa anche quella della curiosa “Operazione Infektion”, che poi in verità non si chiamava veramente così.

Era la storia di come il KGB (che era anche il socio di maggioranza occulto del quotidiano indiano Patriot) avesse messo in piedi un’operazione di disinformazione coordinandosi con tutti i servizi segreti dell’ex cortina di ferro.

I tedeschi della Stasi, che di queste faccende se ne intendevano, l’avevano ribattezzata “Operazione Denver”. Erano stati loro a mettere in piedi il teatrino del professor Segal.

Ancora nel 1992 un sondaggio certificava che il 15% degli americani era certo che l’Aids fosse stato creato in laboratorio.

Non è dato sapere se fra quel 15% ci fosse Donald Trump.

(ps: fotografare un pipistrello in volo è una faticaccia, ve lo assicuro)

Portatevi solo l’essenziale

Io e V. ci incontravano ogni giorno, più o meno nello stesso punto, in orari improbabili anche con meteo instabili.

Lì al confine di tutto, soli nel silenzio delle cose umane, ci scambiavamo i saluti di rito.

“Ciao nàno !”

Per chi non è pratico di quest’angolo d’Emilia profonda, “nàno” è un saluto affettuoso che si rivolge a quelli giovani giovani, anche se poi giovane non sei più.

Parlavamo del più e del meno, non dei massimi sistemi. Quelle magnifiche chiacchiere veloci e sfuggenti dei tempi ordinari.

Poi ognuno per la sua strada: io in mezzo ai campi con la pelosa bestia a quattro zampe e lei a trovare R.

“Salutamelo” le dicevo ogni tanto.

Oggi, dopo diversi giorni, ho incontrato V.

Non eravamo al confine di tutto, ma in mezzo al paese per le faccende che ordinanze e decreti definiscono essenziali. Le nostre non sono state quelle magnifiche chiacchiere veloci e sfuggenti dei tempi ordinari.

Dobbiamo essere isolati, lo dobbiamo a noi stessi e agli altri.

Ma spesso le regole, i divieti, le prescrizioni, via via crescenti, hanno scambiato isolamento e distanziamento sociale per confinamento. E spesso, in realtà diverse, si finisce con l’effetto contrario: a concentrare le persone, non a isolarle.

Non ha lunga vita quest’idea di confinamento, non la può avere. Non l’ha per il tempo che, da subito, sapevamo di dover affrontare.

E allora forse è necessario iniziare a pensare a come prendere le misure con il futuro e ridefinire, quando possibile, il concetto di essenziale e come gestirlo.

“Salutami R.” vorrei tornare a dire prima o poi.

Anche se R. se n’è andato da un pezzo e V. può tranquillamente accarezzarlo, incurante delle distanze.

Lì, al confine di tutto, sono soli nel silenzio delle cose umane.

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Questa cosa dei cimiteri chiusi dovremo affrontarla e risolverla con regole civili e razionali, perché nàno, l’essenziale (come dice più o meno quel libro molto popolare) può essere invisibile agli occhi.

 

 

La stagione delle piogge

“Una singola morte è una tragedia, un milione di morti sono statistica.”

Cortelà son dieci case sparse e tutt’attorno vigne.

C’abitava Renato Turetta.

Renato è morto l’altro giorno a 67 anni, dopo un mese e più che l’avevano portato in ospedale.

Giocava sempre a carte con “el Moro”, che poi era il soprannome con cui a Vo’ chiamavano Adriano Trevisan, il primo decesso diagnosticato in Italia per quella cosa lì che c’abbiamo tra i piedi, che è così veloce e stronza che arriva fino a Cortelà e manco te ne accorgi.

“Una singola morte è una tragedia, un milione di morti sono statistica.”

Io c’ho sempre un po’ le vertigini davanti ai numeri grandi ed è per quello che cerco di aggrapparmi alle cose più piccole, che riesco a vedere meglio, a capire meglio, senza prendere degli svarioni da far girare la testa.

E allora torno sempre a Vo’, con i suoi 3.300 abitanti, un poco meno che qui dove abito io, magari dove state voi.

Lì è successo che, subito dopo che è morto el Moro, hanno testato tutti e alla fine è venuto fuori che c’erano altri 87 contagiati. Fa più o meno il 3% dell’intera popolazione di Vo’.

Più della metà di quelli contagiati è risultata “asintomatica”, che poi vuol dire che stava bene, non c’aveva neanche il raffreddore. Una quarantina di persone insomma, ignare e contagiose.

Finita la quarantena (di due settimane) tutti quelli di Vo’ hanno rifatto il test e i contagiati erano rimasti solo 7 (anche qui asintomatici). Che è lo 0,002% o per meglio dire il “due per mille”.

Un gran risultato, che ci deve far sperare. Ma sperare con attenzione e prudenza.

Alla fine delle due settimane, se non ci fossero stati i test, “gli asintomatici sette” sarebbero usciti dalla quarantena continuando la loro vita di prima: girando, lavorando, abbracciando, giocando e contagiando gli altri 3.000 e rotti abitanti di Vo’ che non avevano ancora contratto la malattia al primo giro.

Questa è la brutta notizia.

Dobbiamo fare ogni sforzo di isolamento in queste settimane, ogni sforzo possibile perché serve e servirà. Ma non basta.

Se non ci attrezziamo, la giostra continuerà a girare.

Il nostro orizzonte non può essere il 3 aprile.

Non è che da quella data riparte la vita di prima. Questo è bene che ce lo diciamo con sincerità.

Ma occorre prepararci da ora, subito, immediatamente, con una strategia che ci porti fuori dall’emergenza.

E questa strategia, come ha detto Andrea Crisanti dell’Università di Padova (uno che i test ce li aveva pronti il 18 gennaio e voleva farli a chi tornava dalla Cina, ma gli hanno detto di no), si chiama “sorveglianza sanitaria attiva di massa” che passa anche attraverso la nostra capacità di fare e analizzare migliaia e migliaia di tamponi al giorno, in ogni parte d’Italia. Bisogna attrezzarsi per quello, investirci soldi e risorse. Subito.

E’ un po’ come gli incendi nei boschi.

La nostra urgenza ora è spegnere questo grande incendio che minaccia le nostre case, le nostre città, il nostro vivere.

Ma viviamo e vivremo per diverso tempo in una stagione secca, su una terra arida e pronta al primo colpo di vento a riprender fuoco.

Dobbiamo attrezzarci con risorse umane e materiali per capire in tempo reale dov’è più forte il pericolo. Spegnere sul nascere la più piccola fiamma e far terra bruciata intorno.

Solo così un giorno torneremo a raccontare le morti come tragedia e non come statistica.

E poi arriverà, finalmente, la stagione delle piogge.

Siamo noi, tocca a noi.

Ieri, nel mio piccolo angolo di provincia emiliana, il paese reale e quelle virtuale si allarmavano per il primo caso positivo a Covid-19, individuato a pochi chilometri di distanza e subito teletrasportato qui dal passaparola.

E’ dovuto intervenire il sindaco per smentire e c’è stato pure lo scatto fotografico con abbraccio al falso contagiato. (l’ultima cosa da fare in questo momento è comunque abbracciare un sindaco o amministratore locale, vera categoria a rischio, stando alle statistiche e alla cronaca).

La verità è che probabilmente anche qui, nel piccolo angolo di provincia emiliana, arriverà Covid-19 se non c’è già arrivato.

In Corea del Sud hanno fatto finora circa 140.000 tamponi e hanno scovato 5.800 contagiati. I morti sono 35.

Il rapporto quindi è di un 4% tra test e contagiati e 0,6% tra contagiati e decessi.

In Veneto, dove con il caso di Vo’ i test sono stati molti e generalizzati, su 10.500 tamponi hanno scovato 360 contagiati, ovvero un rapporto del 3,4% e i morti sono stati 6 (1,6% rispetto ai contagiati)

Sono numeri simili al dato coreano, ma molto diversi da quelli lombardi ed emiliani, luoghi dove i tamponi vengono fatti solo in casi mirati.

Se si cercano di portare (certamente con tutta l’approssimazione del caso) i numeri della mortalità veneti e coreani sull’Emilia e la Lombardia, si arriva ad ipotizzare un numero di contagiati totali decisamente maggiore.

Sono persone probabilmente con sintomi lievi o quasi del tutto assenti, ma possibile, inconsapevole fonte di contagio.

Non sono altro da noi, possiamo essere noi. Siamo noi.

E’ per questo che la dolorosissima operazione (dal punto di vista economico, sociale e culturale) di “distanza sociale” deve essere rispettata il più possibile.

Siamo noi, tocca a noi.

La piccola vedetta lombarda (che non c’era)

Prima gli italiani.

E’ domenica mattina e il conteggio a sabato 29 febbraio ha superato i 1.100 contagiati.

Siamo il terzo paese dopo Cina e Corea del Sud.

Il primo del mondo occidentale.

Perché è successo ?

Un colpo di sfortuna ? Errori ? Impreparazione ?

Probabilmente un gran frullato di tutto questo.

La sorte del focolaio occidentale è toccata al quel quadrilatero di paesini e paesoni di provincia che vivono al limite della grande metropoli tra Lombardia ed Emilia. E’ stato un caso, ma è successo.

Mentre noi tenevamo d’occhio con piglio risoluto le patrie frontiere, il virus di Covid-19 vagava già veloce nella bassa padana.

Ce ne siamo accorti per caso dieci giorni fa, perché un ragazzone grande e grosso che andava sempre di corsa, improvvisamente non aveva più fiato.

Abbiamo attaccato a Mattia M. il numerino di paziente 1, ma le evidenze ormai dicono che era solo l’anello di una catena ben più lunga.

Avevamo schierato i gendarmi con i pennacchi e con le armi, ma quello che ci serviva era una piccola vedetta lombarda.

Il 22 gennaio il Ministero della Salute emette la sua prima circolare operativa (per i medici e gli operatori del servizio sanitario) per la segnalazione di casi sospetti di Covid-19 sul territorio nazionale e identifica tre casistiche.

Nel primo e nel terzo caso i pazienti ammalati con determinati sintomi possono essere segnalati solo se hanno avuto contatti diretti o indiretti con la Cina.

Il punto numero 2 invece chiede di segnalare anche chi “manifesta un decorso clinico insolito o inaspettato, soprattutto un deterioramento improvviso nonostante un trattamento adeguato, senza tener conto del luogo di residenza o storia di viaggio, anche se è stata identificata un’altra eziologia che spiega pienamente la situazione clinica“.

In sostanza: se avete delle polmoniti che non vi spiegate facciamo il tampone.

Il 27 gennaio il Ministero della Salute emette una circolare per precisare quella del 22 gennaio.

In quei cinque giorni deve essere successo qualcosa. Qualcosa che ha a che fare con il numero di segnalazioni.

Lo si capisce a colpo d’occhio guardando la pagina: tutte le congiunzioni sono sottolineate, come a dire: volete capire che non basta che il paziente abbia la polmonite ! Deve anche avere anche tutte le altre altre condizioni, ovvero contatti diretti o indiretti con la Cina.

E lo si capisce anche dall’elemento principale: il punto 2 è sparito.

Vuol dire: non segnalate casi anomali di polmonite.

Guardavamo un orizzonte lontano, senza prestare attenzione al vicino.

E’ vero siamo in una situazione complicata e mutevole, ma non è stata solo sfortuna.

Ammetterlo è il primo passo per uscirne, questa volta e le prossime, tutti insieme.

Gli amori passano, le fotografie restano

Dietro al cartoncino della “Premiata Fotografia Artistica Guido Lazzaretti” con studi a Reggio Emilia e filiali a Correggio e Scandiano, c’è una data.

10-2-19.

Dieci febbraio, qualche giorno fa.
1919, cento anni fa.

È scritta a mano la data, su un bordo, insieme ad una manciata di parole che N ha lasciato a G.

N ha gli occhi scuri, i capelli lunghi e un sorriso che non è un sorriso. E’ qualcosa di più.

C’è da immaginarselo il maestro Guido Lazzaretti, fotografo/pittore che dei ritratti ha fatto un florido mestiere: “non rida signorina, cortesemente non sorrida e guardi dritto verso di me“.

La fotografia aveva ancora un certo grado di solennità; come scriveva Mark Twain “una fotografia è il documento più importante e non c’è nulla di peggiore che passare alla posterità che con uno sciocco e stupido sorriso fissato sulla faccia per l’eternità“. Andava così.

C’era di mezzo anche una faccenda tecnica: i tempi di esposizione lunghi, che a stare fermi, stampati con il sorriso in faccia, veniva faticoso.

Ma quello lì di N è un sorriso che non è un sorriso. E’ qualcosa di più.

G e N s’erano conosciuti da poco più di un anno, da quando lei era scesa dal treno a Reggio con addosso i suoi 16 anni e una valigia, in compagnia di altri 1.500.

Fuggiva dalla guerra N, fuggiva dalla Carnia, da Ampezzo dove ora c’erano gli “striaci”.

E arrivava nell’Emilia profonda. Fai un po’ te.

Era una profuga N.

Perché sì, siam stati anche un popolo di profughi cent’anni fa, ma non ce lo ricordiamo più.

A Reggio e provincia arriveranno nel tempo fino a 7.000 profughi friulani. Un esodo disordinato, a fatica gestito. Per mesi, dopo Caporetto, le pagine dei giornali riservavano uno spazio a chi cercava i propri familiari dispersi nella fuga lungo la penisola.

Ma a sedici anni, nel mezzo della guerra, lontana da casa, N riuscì a fare una cosa che a sedici anni ti viene benissimo: innamorarsi.

Quegli amori primi che riempiono tutti gli attimi, le ore, i giorni.

Quegli amori totali che nascono improvvisi e paiono dover sfidare l’eternità.

Quello di N è un sorriso che non è un sorriso. E’ qualcosa di più.

N tornò a casa. Per qualche tempo continuò a scrivere a G.

Poi la vita si rimise in cammino.

G si innamorò di nuovo. Uno di quegli amori che riempiono non solo gli attimi, ma i giorni, i mesi e gli anni.

Quegli amori maturi che bruciano lenti e scaldano l’anima, che riempono la vita di altra vita, di figli che crescono, di nipoti che nascono.

Quegli amori tutti d’un pezzo, a cui l’eternità fa manco il solletico.

Però quello di N era un sorriso, che non era un sorriso. Era qualcosa di più.

Era la magnifica illusione dell’eterna felicità.

E anche per quello forse che quella fotografia e quel sorriso sono stati conservati con affetto e con cura per tanti anni, fino all’ultimo dei giorni, nell’angolo dei ricordi piccoli e preziosi di G, mio nonno.

Un Natale a Bibbiano

Da qualche anno una delle storie di Natale a cui sono più affezionato è accaduta lì, proprio lì, a Bibbiano.

E’ una storia vera. E se non fosse un storia emiliana e reggiana la potrebbero aver scritta ad Hollywood. E’ una storia di guerra e, a suo modo, è una grande storia d’amore.

Domenica 17 dicembre 1944. Cinque del mattino, ai piedi delle colline reggiane.

Pom-Pom-Pom-Pom .. Pom

Hai sentito i colpi ? Dobbiamo andare. 

Ma non possiamo lasciarle lì. Ci siamo quasi. Manca tanto così, non possiamo andarcene.

Bosco, guardami. Ho detto guardami: è tardi. A gh’òm d’ander. Fra poco fa giorno e non possiamo fare più niente. Via, dai c’andom. Corri Bosco, corri.

Venerdì 15 dicembre 1944, pomeriggio.

Quindi sei sicuro ?
Oddone, gli ho sentiti con queste orecchie. Lunedì, al massimo martedì, le caricano sui treni e le portano in Germania.
Sti maledetti.
Abbiamo tre giorni, anche meno.
Devo trovare subito S. e parlagliene.

Venerdì 15 dicembre 1944 sera.

Raccogli tutti quelli che puoi. Tutti.
E poi ci servono dei mezzi. Molti mezzi. A motore possibilmente, se no cavalli. Oddone te conosci tutti lì: voglio che ti procuri le chiavi per entrare.

Consideralo fatto.

Non dobbiamo permettere a nessuno di dare l’allarme, quindi delle squadre saboteranno i cavi del telefono verso Reggio, Quattro Castella, San Polo e Montecchio. Mettiamo dei posti di blocco su tutte le strade intorno. E mandiamo qualcuno a Cavriago: domani notte non un solo repubblichino deve mettere fuori il naso dalla caserma.

Dovremo sudarcela parecchio, ma non ce le porteranno via. Sono figlie nostre. Questo Natale lo passeranno qui, a casa.

Sì ma se riusciamo a tirarle fuori di lì, poi che facciamo ?

Le nascondiamo al sicuro in ogni casa, in ogni angolo e su in montagna.

Passate la voce: domani alle sette di sera tutti pronti. Nel bene e nel male, ci ritiriamo solo ai cinque colpi di moschetto.

Domenica 17 dicembre 1944, sette del mattino, ai piedi delle colline reggiane.

Papà, papà, papà.
Sa gh’é da sbrajèr con quel freddo qui.
Viene a vedere !
Sa vōt ?
Vieni a vedere dietro la quercia.
E che ci sarà mai dietro la quercia da urlare tanto, un carrarmato?
Meglio papà, meglio.

Nella notte tra il 16 e 17 dicembre del 1944, in sole dieci ore, una cinquantina di membri della 76^ brigata Sap (squadre d’azione patriottica) sottrassero dai magazzini Locatelli di Barco di Bibbiano quasi 3.000 delle 4.000 forme di Parmigiano Reggiano (annate 1941-42-43) destinate ad essere requisite dall’esercito tedesco per essere trasferite in Germania. Non si riuscì a portarle via proprio tutte per colpa di un guasto ad un camion in uno dei 50 viaggi di quella notte.

Nell’azione nessuno rimase ferito.

Circa settecento forme furono trasferite in montagna, le altre divise e distribuite a migliaia di famiglie dei paesi vicini, a secondo delle necessità.

In quel gelido, difficile e tremendo inverno del 1944 molti trovarono una bella sorpresa. Qualcuno anche sotto un albero.

Ad ideare e a comandare la spettacolare operazione furono Bruno Veneziani (Oddone) e il suo comandante Sirio, all’anagrafe Paride Allegri. Partigiano, ambientalista e pacifista reggiano.

Volevo raccontarvi una storia, una storia vera. E se non fosse una storia emiliana e reggiana ad Hollywood l’avrebbero forse chiamata “Operazione Grattugia“.

Questa è una storia di guerra e, a suo modo, è una grande storia d’amore.

Amore per la propria terra, per la propria comunità e per la vita.

In ogni singola forma.

Daphne, una rompicoglioni

Daphne era una rompicoglioni.
Una rompicoglioni come pochi.
Libera, negli strumenti e nelle opinioni.
A volte spietata, a volte azzardata, quasi sempre temuta.

Daphne era tutto questo in un coriandolo di terra in mezzo al Mediterraneo dove tutti si conoscono, dove i nomi sono sempre gli stessi, dove spesso “cane non mangia cane”.

Malta è più piccola della provincia di Prato e di fatto Daphne era una cronista locale che scriveva su un blog.

Solo che quel blog lo leggevano tutti: estimatori e nemici giurati.

Solo che quel blog parla di una piccola provincia che in verità è una giovane nazione europea, investita negli ultimi anni da un immenso fiume di denaro che ne sta cambiando l’aspetto e l’anima.

Gioco d’azzardo hi-tech, passaporti facili, traffico di droga, contrabbando, speculazioni immobiliari.

Tutto concentrato nel tempo e nello spazio, in un pezzo di terra circondato dall’acqua, dove tutti conoscono tutti e dove sicuramente qualcuno conosce anche la verità.

La verità in fondo cercava Daphne. Nient’altro che la verità.

Josepha e gli altri

Verde. Dov’è quella maledetta corda verde.

Oggi su Avvenire Nello Scavo ci riporta dell’incontro con Josepha e del lento miglioramento delle sue condizioni da quel mattino del 17 luglio 2018, quando Open Arms la recuperò su un gommone in mezzo al Mediterraneo, ormai sfinita, assieme al cadavere di un’altra donna e a quello di un bambino.

Ricostruire cosa è accaduto a Josepha e ai suoi compagni di viaggio (quelli vivi e quelli morti) mi è parso da subito un modo per ridare umanità e senso alle storie delle migliaia di persone che hanno tentato di attraversare il mare in questi anni. 

L’ho fatto in due post nei giorni immediatamente successivi al ritrovamento, cercando di mettere insieme più fatti possibili: tracce gps,  immagini, video, comunicati. I due post sono questi:

Tutti gli elementi di fatto dicono che Josepha, assieme all’altra donna e al bambino, è stata abbandonata (forse perché ritenuta morta) dopo che il gommone è stato intercettato dalla “guardia costiera” libica.

Quale unità della “guardia costiera” libica è responsabile di questo intervento e dell’abbandono in mare ?

Verde. Dov’è quella maledetta corda verde.

Il 16 luglio 2018 ci furono due interventi della “guarda costiera” libica. Uno a 26 miglia nautiche da Homs, che è avvenuto di giorno (tanto che organi di informazione locali lo riportavano già nella prima serata del 16 luglio) e uno a circa 80 miglia nautiche dalla costa libica, effettuato nella tarda serata (intorno alle 22.00) dalla motovedetta “648 Ras Al Jadar” su cui era imbarcata per un servizio anche la giornalista tedesca Nadja Kriewald.

Quest’ultimo intervento è compatibile per posizione ed orari con la segnalazione del porta container Triades e con la zona di recupero del gommone di Josepha da parte di Open Arms.

Era lo stesso gommone ? La testimonianza di Nadja Kriewald, utilizzata da molti (compresi Viminale e autorità libiche) per evidenziare il corretto comportamento della “guardia costiera” libica, indurrebbe a pensare di no. In verità la versione della giornalista tedesca è meno assertoria e più sfumata, come riferita nell’immediatezza dei fatti dal collega Udo Gumpel: 

non può confermare certamente, data la situazione notturna, che dopo il trasbordo dal gommone a bordo della nave non ci fosse rimasto nessuno a bordo

Oltre alle parole di Nadja Kriewald, su quanto accaduto quella sera, possono testimoniare le immagini girate dal suo operatore finite poi in diversi servizi tv. 

Dall’analisi di quelle immagini finora erano emersi diversi indizi di una straordinaria identità tra il gommone soccorso dalla “648 Ras Al Jadar” e quello trovato la mattina dopo da Open Arms.

I due gommoni erano identici per dimensione, forma, colore e particolari.

Ecco, i particolari.

L’obiezione legittima è che molti gommoni di trafficanti si assomigliano.

Questi due però sono identici anche in una coincidenza davvero sorprendente: entrambi sulla poppa (uguale per sagomatura e colore) presentano nella stessa identica posizione due segni rossi di vernice fatti a mano.

Una coincidenza straordinaria a cui se ne aggiunge un’altra.

Molte volte ho guardato la foto che ha scattato Pau Barrena prima che gli uomini di Open Arms recuperassero Josepha. In quella foto il gommone è ancora “integro”, sgonfio ma integro. Si vedono i corpi delle tre persone a bordo, si vedono i segni rossi sulla poppa e poi, tra i molti resti, quella corda verde legata a tribordo (il lato destro).

Il corpo della donna morta nel naufragio al largo della Libia, 17 luglio 2018 (PAU BARRENA/AFP/Getty Images)

L’altro giorno ho letto che Libyen – Rettungs-Aktion mit der Küstenwache (il titolo del servizio di Nadja Kreiwald sulla Ras Al Jadar) è tra i candidati del premio “German Human Rights Film Awards” e così l’ho cercato e l’ho guardato su Youtube.

Non era ovviamente la prima volta, né la seconda, né la terza. Forse la centoventesima.

Oltre a cercare sempre inutilmente di individuare nelle immagini buie e sgranate il fantasma del volto di Josepha, avevo cercato e trovato, a suo tempo, i segni rossi sulla poppa.

E niente di più.

Niente più, a parte quel tizio strano che compare brevemente nei filmati e che si muove con agilità e arroganza in mezzo alla folla del gommone. Giovane, cappellino buttato indietro, vistosa collana addosso, stonava con il resto del gruppo di migranti.

Ma attirato da lui e dal suo essere quasi “fuori luogo” non avevo notato fino ad oggi che, in un frammento di immagine, il tizio strano cerca di facilitare “l’abbordaggio” tra le due imbarcazioni assicurandosi al gommone.

Lo fa legandosi malamente a tribordo con una corda.

Sì, quella maledetta corda verde.


(ps: sarebbe utile che NTV mettesse a disposizione del pubblico tutto il girato di quel 16 luglio)

Mimì e i diniegati

Amina è arrivata nella baraccopoli di San Ferdinando nel gennaio di quest’anno.

San Ferdinando è a due passi da Rosarno in Calabria.

E’ quel posto dove vivono, si fa per dire, quelli che raccolgono le arance e i mandarini nella piana di Gioia Tauro. E’ anche quel posto dove ogni tanto qualcuno muore.

L’ultimo in ordine di tempo, a giugno, è stato Soumaila Sacko, quel ragazzo del Mali a cui hanno sparato una fucilata mentre raccoglieva da una fabbrica abbandonata delle lamiere per rinforzare il tetto precario sotto cui dormiva.

Amina a San Ferdinando era arrivata da una manciata di giorni. Sono bastati per ritornare a prostituirsi nelle mani della mafia nigeriana e per morire nel grande incendio che ha divorato in una notte duecento baracche.

Era il 27 gennaio.

Quattro mesi dopo, il 25 maggio, dall’altra parte dell’Aspromonte, a Riace, ad un’ora di macchina da San Ferdinando, è una bella giornata di sole.

Nel cimitero ci sono il prete, gli amici, i conoscenti a dare l’ultimo saluto a Becky Moses. La ricordano tutti sempre sorridente in quei due anni che aveva passato in paese.

Al cimitero c’è anche il sindaco, che si chiama Domenico Lucano. Mimì o Mimmo per quasi tutti. E’ quello che hanno messo oggi agli arresti domiciliari per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Nel comunicato della Procura di Locri si sottolinea come Mimì fosse parecchio “spregiudicato” (hanno scritto così) nel cercare di far rimanere a Riace quelli che erano “diniegati“, che è uno di quei termini disgraziati con cui la burocrazia indica quelli a cui viene rifiutato il permesso di soggiorno per motivi umanitari o il diritto d’asilo. I “diniegati” sono come fantasmi: senza documenti, senza diritti, senza possibilità, abbandonati alla legge del più forte o del più furbo.

Pur di non perdere qualcuno, di non abbandonarlo, Mimì era disposto a fare “carte false”. Forse anche letteralmente. Anche a far sposare qualcuno, magari per finta.

Anche a Becky Moses Mimì aveva fatto i documenti. C’è la sua firma sulla carta d’identità della ragazza.

La data è il 21 dicembre 2017.

Una settimana dopo Becky deve andarsene da Riace come molti altri. I soldi dal ministero non arrivano, lei è una “diniegata”, Mimì deve chiudere parte dei centri d’accoglienza.

Di Amina, dopo il rogo di San Ferdinando, nessuno reclamerà il corpo o quello che resta.

Troverà riposo solo quando Domenico Lucano, detto Mimì, deciderà di riportarla a casa, a Riace.

Quel giorno di sole di maggio al funerale nel piccolo cimitero Domenico Lucano si toglierà la fascia di sindaco. Mimì sente tutto il peso della responsabilità di aver permesso che Becky, in meno di un mese, passasse dalla vita di Riace alla disperazione e alla morte di San Ferdinando.

Amina era Becky, una mese prima, una vita prima.

Daphne, che gridava nel deserto

All’entrata laterale della chiesa la fila si allunga di prima mattina.

Risse, puttane e sbruffonate. Si sta in coda nel sudore di un caldo africano per uno che amava mescolarsi all’umanità dei bassifondi e poi fissare le luci e le ombre della vita nell’eternità della tela.

Il Giovanni di Caravaggio è lì, testa a terra. Solo.

Solo come un uomo che gridava nel deserto.

Il Monumento dell’Assedio, che sta proprio di fianco alla fila di turisti e di fronte al Palazzo di Giustizia di Valletta, è oscurato da uno di quei cartelloni che si mettono a lavori in corso. Ma di lavori nemmeno l’ombra.

Ogni giorno qualcuno lascia lì davanti qualcosa. Ogni sera qualcuno, in nome del decoro e a favore dell’oblio, toglie tutto.

Ogni giorno qualcuno rimette qualcosa: una candela, un biglietto, un fiore.

E’ una guerra di posizione che si trascina da settimane: da un parte chi vuole dimenticare e andare avanti nei propri affari, e dall’altra chi non si rassegna e vuole verità e giustizia.

Giustizia per Daphne Caruana Galizia, una che raccontava l’altra Malta, quelle delle molte ombre dietro le luci.

Una che, sola, gridava nel deserto.