Il vento, le onde, pezzi di case, cronisti inzuppati, squali instradati, morti affogati , foto vere e farlocche, spiagge distrutte, la Grande Mela, black out, allagamenti.
Ci sono molte cose e molte storie dentro il vortice di notizie che Sandy ha scaraventato in mezzo mondo attraverso gli schermi di tv e computer.
E’ l’America del resto. E’ il centro fisico e mediatico del mondo. Almeno ancora per un po’.
E forse non è giusto che Sandy sia raccontata così solo ora, dopo che nel silenzio di molti ha ucciso e devastato quelli che non sono il centro del mondo (almeno ancora per un po’): Jamaica, Cuba, Haiti.
Però ora quelle storie sono lì a raccontarci qualcosa, qualcosa dell’America di oggi.
Una, forse, più di tutte.E’ la storia di Claudene Christian, dichiarata morta lunedì sera in un ospedale del Nord Carolina dopo che era stata recuperata in mare dallo spettacolare e difficoltoso intervento della Guarda Costiera.
Claudene, 42 anni, lavorava a bordo della HMS Bounty (replica dello storico vascello del 1700) affondata in queste ore dalla tempesta Sandy.
L’imbarcazione era stata costruita nel 1960 dalla Metro Goldwyn Mayer per il film con Marlon Brando “L’ammutinamento del Bounty” ed è stata utilizzata negli anni per altre produzioni cinematografiche (tra cui due episodi de “I Pirati dei Caraibi“).
Un posto strano dove lavorare, un posto molto americano.
Claudene era arrivata a bordo solo a maggio di quest’anno, senza un particolare passato da “marinaio”. Si era portata dietro solo la sua dose di simpatia e quel suo cognome su cui ironizzava: Christian. Fletcher Christian era infatti il nome del reale protagonista dell’ammutinamento del Bounty.
Claudene veniva dall’America più remota: Fairbanks, Alaska.
Si era poi trasferita a Los Angeles per frequentare l’Università della California. Lì finisce in una vera e propria istituzione americana: le “USC Song Girls“, storiche cheerleader della squadra di football universitario. Quelle che qui chiamavamo “ragazze pon pon“.
Sì perchè Claudene era bella, bionda e con gli occhi azzurri. Qualcuno potrebbe dire quasi “una Barbie“, ma di certo il paragone non le avrebbe fatto piacere.
Nei primi anni novanta infatti Claudene vuole inseguire, giovanissima, il suo personale sogno americano: produrre e commercializzare bambole-cheerleader. Stringe accordi con i principali college americani e gli affari vanno alla grande.
Forse troppo.
Delle piccole cheerleader di Claudene si accorge la Mattel, nota multinazionale produttrice della “Barbie”, che inizia una serie infinita di cause legali. Dopo anni tra vittorie e sconfitte Claudene, stremata anche emotivamente, cede ad un accordo extra giudiziario.
Ma i guai per la giovane Miss Alaska non sono finiti.
Nel 2007 Claudene è una delle prime vittime della crisi dei mutui subprime. Perde la sua casa in California e torna a vivere dai suoi in Alaska. Della sua vergogna e della sua depressione parlerà con un piccolo giornale di provincia dell’Oklaoma, terra di origine della madre.
In quell’articolo di un anno fa, Claudene sorride in mezzo alle scatole delle sue cheerleader, in una delle ultime immagini di una storia molto americana.
Una storia purtroppo senza un happy end.