Le aziende multinazionali, operando per loro natura in molti paesi con sistemi fiscali diversi, hanno sviluppato in decenni di operatività una grande scaltrezza (chiamiamola così) nello sfruttare tutte le falle dei sistemi nazionali per pagare meno tasse. A volte per non pagarle proprio.
La vicenda irlandese che vede confrontarsi Apple e Commissione Europea è solo l’ultimo caso di molti già conosciuti.
Al di là dei singoli tecnicismi fiscali, in cui una normale mente umana rischia di perdersi definitivamente, il risultato è molto semplice: in questi anni per ogni euro guadagnato vendendo un iCoso al di fuori del mercato americano Apple ha versato tasse (esclusa l’iva) per la metà di un centesimo.
La metà di un centesimo.
Ovviamente, pagando così poche tasse, ha anche (ripetiamo insieme “anche”) potuto creare posti di lavoro e ricchezza.
La cosa buffa è che i più danneggiati sono i contribuenti americani. Si perché il giochetto irlandese di Apple è possibile solo grazie ad una falla del sistema fiscale americano che permette alle multinazionali di non veder tassati i propri guadagni all’estero (al 35%) finché quei soldi non rientrano sul suolo statunitense. Nei bilanci Apple è infatti iscritta una cifra monstre di 20 miliardi di dollari di tasse differite. Tasse cioè che Apple ammette dovrebbe all’erario americano ma che non farà mai rientrare e che quindi non verranno mai tassate.
Una specie di limbo fiscale, ecco.
Un limbo fiscale generato da una parte dal sistema irlandese con le sue società registrate ma non residenti a zero tasse e dall’altra dagli Stati Uniti e dalle loro esenzioni ai guadagni non rientrati in patria.
Un limbo dove molti, oltre ad Apple, si muovono comodamente. Pure troppo.