Le regole

Io sono in maglietta e la ragazza di fronte è imbacuccata come se ci fosse un freddo becco. Ha la cuffia di di lana quasi calata sugli occhi, la giacca tirata su, come il bambino seduto li a fianco.

La bambina bionda due sedili avanti canticchia le canzoni imparate alla scuola materna. Deve essere l’orgoglio della nonna francese che la riporta a casa dopo la gita in Italia. È bionda e dolcissima.

Le signore italiane a fianco parlano di gelsomini e di vacanze.

Il treno parte e viaggia piano. La ragazza non incrocia mai lo sguardo, il bambino sta lì a testa bassa.

La bambina bionda continua a cantare. Canta anche quando a Mentone la gendarmerie sale e ordina con professionalità e decisione alla ragazza imbacuccata e al bambino a fianco di scendere dal treno. Si alza e la sua giacca mostra il profilo di un altro cinno in arrivo. Sul piazzale il pulmino della polizia li attende per riportarli in Italia.

“Sono le regole” chiosa la signora italiana e torna a parlare di gelsomini.

La bambina bionda continua a cantare dalla parte giusta del confine e del mare.

A Monaco salgono i controllori francesi. Le signore dei gelsomini hanno fatto confusione con i biglietti: non sono validi, devono rifarli e pagare 50 euro a testa. Protestano per quello che possono, ma mi spiace dice il controllore. “Sono le regole.”

Buona Pasqua a chi è in regola e sopratutto a chi non lo è.

Muri di benvenuto

Una vera offerta: una villetta bifamiliare con tre camere da letto per ogni abitazione a meno di 60.000 euro. Sì, bisogna ristrutturare e non poco, però.

Si nota anche dalle foto dell’agenzie immobiliari che non c’abita più nessuno da un sacco di tempo.

Gli ultimi inquilini del numero 371 erano una coppia di anziani piuttosto simpatici. Al 369, lì a fianco, sulla porta si legge ancora il nome l’ultimo inquilino: Cori, che sta per “Conference of Religious of Ireland”, una congregazione cattolica irlandese.

Erano gli anni novanta.

Leggi Tutto →

I figli del peccato

Due bambini che giocano nel prato verde tra le case. La curiosità di quella grande pietra in mezzo all’erba. La alzano. Un grosso buco e sotto un sacco di piccoli scheletri.

Era il 1975. Frannie e Barry avevano appena scoperto il segreto che quasi tutti a Tuam conoscevano.

The Home“. Così la chiamavano la Saint Mary’s Mother and Baby Home, l’istituto per ragazze madri della contea di Galway dove venivano dati alla luce “i figli del peccato“.

A Frannie e Barry venne detto di dimenticarsi di quel luogo. Il prete aveva detto una messa in ricordo di quei bambini. Era finita lì.

Ieri, quando il ministro irlandese Katherine Zappone le ha telefonato per dirle che aveva ragione, Catherine Corless non era sorpresa.

Catherine per anni ha dedicato il suo tempo libero alla ricerca della verità. Ha spulciato archivi, consultato mappe e si è scontrata con molti rifiuti, ma non ha mollato di un millimetro.

Ad un certo punto ha ottenuto 800 certificati di morte dall’anagrafe.

Li ha pagati 4 euro l’uno.

Erano tutti bambini morti a Tuam per malattie, malnutrizione e maltrattamenti. Non risultavano sepolti da nessuna parte, in nessun cimitero.

Se c’è una morale in questa storia di grande dolore e disumanità è che la verità prima o poi trova la sua strada grazie a persone come Catherine Corless, che l’umanità la conservano intatta.

La straordinaria banalità del bene

La guerra era finita, era tornato a casa. S’era messo a fare il ferrivecchi e tutti i soldi che guadagnava se li beveva.

La devi smettere di bere e ti devi curare.

Scappò dall’ospedale perché non gli davano il vino. Lo trovano ubriaco in un fosso.

In un mondo come questo non val la pena di vivere“.

Morì di tubercolosi nel 1952 a Fossano, provincia di Cuneo, dov’era nato 48 anni prima.


C’era un muro da tirare su e lui con i muri ci sapeva fare. La ditta l’aveva portato fin là per quello. Parlava poco, lavorava tanto e bene: “faceva muri dritti, solidi, con mattoni ben intrecciati e con tutta la calcina che ci voleva; non per ossequi agli ordini, ma per dignità professionale”.

Gli capitò un giorno a fargli da garzone uno che al primo viaggio rovesciò tutta la calce del secchio.

Ah’s capis cun gent’ parei“. Che ti aspetti da gente così. Dialetto piemontese in mezzo alla campagna polacca. Roba strana.

Leggi Tutto →

Il limbo fiscale di Apple

Le aziende multinazionali, operando per loro natura in molti paesi con sistemi fiscali diversi, hanno sviluppato in decenni di operatività una grande scaltrezza (chiamiamola così) nello sfruttare tutte le falle dei sistemi nazionali per pagare meno tasse. A volte per non pagarle proprio.

La vicenda irlandese che vede confrontarsi Apple e Commissione Europea è solo l’ultimo caso di molti già conosciuti.

Al di là dei singoli tecnicismi fiscali, in cui una normale mente umana rischia di perdersi definitivamente, il risultato è molto semplice: in questi anni per ogni euro guadagnato vendendo un iCoso al di fuori del mercato americano Apple ha versato tasse (esclusa l’iva) per la metà di un centesimo.

La metà di un centesimo.

Ovviamente, pagando così poche tasse, ha anche (ripetiamo insieme “anche”) potuto creare posti di lavoro e ricchezza.

La cosa buffa è che i più danneggiati sono i contribuenti americani. Si perché il giochetto irlandese di Apple è possibile solo grazie ad una falla del sistema fiscale americano che permette alle multinazionali di non veder tassati i propri guadagni all’estero (al 35%) finché quei soldi non rientrano sul suolo statunitense. Nei bilanci Apple è infatti iscritta una cifra monstre di 20 miliardi di dollari di tasse differite. Tasse cioè che Apple ammette dovrebbe all’erario americano ma che non farà mai rientrare e che quindi non verranno mai tassate.

Una specie di limbo fiscale, ecco.

Un limbo fiscale generato da una parte dal sistema irlandese con le sue società registrate ma non residenti a zero tasse e dall’altra dagli Stati Uniti e dalle loro esenzioni ai guadagni non rientrati in patria.

Un limbo dove molti, oltre ad Apple, si muovono comodamente. Pure troppo.

floating piers

24 ore con Christo nell’Isola che è un Monte

Sono le due di notte e Franco monta in groppa all’apecar per portare i suoi 25 anni giù per i tornanti fino al molo. Arrivano i rifornimenti con la chiatta. Ci sono i panini per il giorno dopo da riportare su.

C’è un’isola che non dorme mai. Da dieci giorni o giù di lì. Non sta nelle calde acque dell’Egeo ma in quelle più vicine e meno esotiche dell’Iseo.

C’è un isola che non dorme mai, ma quell’isola è anche un monte. E non è un particolare da poco.

A pelo d’acqua scorre incessante sul tappeto arancione una folla immensa. Ad ogni ora, ad ogni minuto, in qualsiasi secondo. Giovani alla moda e anziani alla deriva, camice stirate e canotte vissute, abbronzature tropicali e pallori lunari. C’è gente da aperitivo in centro e gente da pizza al taglio. Gente divertita e gente incazzata. Gente sudata e gente sudata.

Venti metri più su quel mondo lì, nel bene e nel male, comincia piano piano ad estinguersi. È una specie di selezione naturale altimetrica, fino alla vetta della Madonna della Ceriola dove arrivano solo quei pochi che hanno deciso, con una certa presunzione, di guardare Christo dall’alto al basso. Sono di norma matti da legare e pensionati del CAI, quando le due cose non coincidono.

È l’isola che diventa montagna.

Giù i Floating Piers e su Al Coren, che è la copia sputata di quegli inossidabili bar d’appennino emiliano che aprono tardi la mattina e non chiudono mai la sera. Posti dove ci metti un attimo a sentirti a casa.

Franco, quello dei panini, molla il banco per guidarmi insieme a Leon (più che un cane da guardia una scodinzolante guida turistica) nel pratone sulla scogliera che è li a picco sull’isoletta di San Paolo, pronta per uno scatto notturno e silenzioso che nessun elicottero ti regalerà mai.

Mi sono chiesto se, al di là del grande set fotografico naturale ed artificiale, questi grandi pontili galleggianti mi siano piaciuti. La risposta me l’ha data uno che è tornato dalla Svizzera per amore e passione di quella terra lì a picco sull’acqua.

A Montisola (tuttoattaccato) come nel resto d’Italia, ci sono quelli che benedicono il caotico galleggiare sulle orme di Christo, quelli che lo maledicono e poi c’è Elio.

Elio dice che tra dieci anni saranno tutti lì, indistintamente, a raccontare ai figli che loro c’erano quella volta sul lago. E tra vent’anni saranno tutti lì, indistintamente, a raccontare ai nipoti che c’han messo il loro pezzettino quella volta della folla che camminava sull’acqua. Si passeranno le notti a raccontarsela al bancone quella storia di Christo, con molte e colossali vanterie. Come succede sempre, del resto, nei migliori bar d’appennino.

Perchè quell’isola è anche un monte. E non è un particolare da poco.

Toto amministrative

Molti mesi fa Matteo Renzi aveva deciso di “saltare” le elezioni amministrative: un terreno troppo scivoloso, un panorama troppo frammentato. E poi non poteva giocare la carta che preferisce e che giudica più efficace: se stesso.

La strategia quindi è stata quella di puntare tutto sul referendum costituzionale di ottobre, una mossa non meno rischiosa, ma in cui può spendere la propaganda sempreverde del “nuovo contro il vecchio”, “quelli che vogliono cambiare contro quelli che dicono sempre no”.

Quindi vadano come vadano le elezioni amministrative. Il Movimento 5 Stelle si prenderà Roma e poco altro (attenzione però a Chiara Appendino al ballottaggio contro Fassino) e se Milano sfrutta l’onda lunga di Pisapia e dell’Expo Renzi con Sala può giocarsi la carta della capitale morale.

Uno a uno, palla al centro.

Chi vorrà invece un quadro d’insieme del voto, per poi magari misurare lo stato di salute del rapporto Renzi-Italiani, dovrà andarsi a spulciare i dati elettorali, se non al milletrecentesimo comune, almeno quelli dei primi 30 sopra i 50.000 abitanti.

Fra 15 giorni, dopo i ballottaggi, saranno più o meno tutti contenti.

Il Movimento 5 Stelle per la grande vittoria di Roma e forse per la sorpresa Torino. Il PD per aver tenuto in provincia. La sinistra PD perchè con “Renzi si perdono elettori”. Salvini per aver confermato le percentuali nazionali dei sondaggi.  E Berlusconi ? Beh Berlusconi sospetto sappia consolarsi dalle sconfitte. A modo suo, diciamo.

Io, Fred e i paraboloidi iperbolici

35 euro. Prima del funerale, una sosta al supermercato. I figli di Fred Baur hanno voluto rispettare le ultime volontà del padre, morto nel maggio del 2008 ad un passo dai novant’anni dopo una vita di onesto e produttivo lavoro. Ora in un grande e semplice prato verde in mezzo alle case di College Hill, sobborgo di Cincinnati, le ceneri di Baur riposano accanto all’adorata moglie: un’urna funeraria e un tubo rigido per paraboloidi iperbolici.

35 euro. Mechelen sta giusto a metà strada tra Bruxelles e Anversa, nelle Fiandre. Da un grande stabilimento bianco e azzurro escono 20.000 pezzi ogni minuto. Direzione ? Tutta Europa. Dentro ci lavorano più di 650 persone e in questi anni hanno continuato ad assumere. Una bella fetta di economia per una cittadina di 80.000 abitanti.

Leggi Tutto →

Roma, in confronto, è una passeggiata

Se si vuole capire qualcosa delle prossime elezioni amministrative del 5 giugno bisogna andare sul quel ramo del lago di Como. Sì, proprio quello.

Dall’altra parte del lago, sotto il Resegone (sì, proprio quello), c’è il comune di Morterone, che domenica va a votare.

Si è ricandidata per un secondo mandato Antonella Invernizzi.

Non viene da cinque anni semplici semplici. E’ finita sotto processo per abuso edilizio, e poi per peculato, e poi per occultamento di cadavere. Se fosse stata del “Movimento 5 Stelle” sarebbe fuori da un pezzo, altro che Parma. Ha subito anche minacce e le hanno danneggiato l’auto.

Del resto nel 2011 Morterone, alle elezioni, si era spaccata praticamente a metà: la lista “Vivere Monterone” con 53,3% aveva battuto “Rinnovare Monterone” ferma al 46,6%.

Altissima l’affluenza alle urne: 100%.  

Leggi Tutto →

Lui è tornato (se mai se ne fosse andato)

“Lui è tornato” è il Borat del cinema europeo.

Un mezzo capolavoro che andrebbe trasmesso, per vedere l’effetto che fa, su Rai Uno o Canale 5 in prima serata.

Nell’Europa dei nazionalismi benvestiti, del razzismo infiocchettato da buon senso, dell’odio mascherato da provocazione trash, Lui è lì, acquattato dietro la siepe della nostra noncuranza.

Pronto per il prossimo selfie.

L’Operazione Rader

Volevo raccontarvi una storia, una storia vera. E se non fosse un storia emiliana e reggiana la potrebbero aver scritta ad Hollywood. E’ una storia di guerra e, a suo modo, è una grande storia d’amore.

Domenica 17 dicembre 1944. Cinque del mattino, ai piedi delle colline reggiane.

Pom-Pom-Pom-Pom .. Pom

Hai sentito i colpi ? Dobbiamo andare. Ho detto che dobbiamo andare, muoviti.

Ma non possiamo lasciarle lì. Ci siamo quasi. Manca tanto così, non possiamo andarcene.

Carnera guardami. Ho detto guardami: è tardi. A gh’òm d’ander. Fra poco fa giorno e non possiamo fare più niente. Viaviavia, dai c’andom. Corri Carnera, corri.

Venerdì 15 dicembre 1944.

Quindi sei sicuro, ma proprio sicuro, giusto ?
Oddone, gli ho sentiti con queste orecchie.Lunedì, al massimo martedì, le caricano sui treni e le portano in Germania.
Sti maledetti.
Abbiamo tre giorni, anche meno.
Devo trovare subito S. e parlagliene.

Sabato 16 dicembre 1944, Salò.

Eccellenza, l’aspettano a Milano per il discorso.
Aspetteranno, ho bisogno di energie. Sa da quanto non parlo in pubblico ?
Lo so Eccellenza.
Ci vuole il formaggio qua sopra.
Temo di non poterla accontentare Eccellenza.
Per colpa della guerra quindi anche il Duce deve vivere razionato ? Un giorno pagheranno tutto, questi traditori.

Venerdì 15 dicembre 1944 sera.

Raccogli tutti quelli che puoi. Tutti.
E poi ci servono dei mezzi. Molti mezzi. A motore possibilmente, se no cavalli. Oddone te conosci tutti lì: voglio che ti procuri le chiavi per entrare.

Consideralo fatto S.

Non dobbiamo permettere a nessuno di dare l’allarme, quindi delle squadre saboteranno i cavi del telefono verso Reggio, Quattro Castella, San Polo e Montecchio. Mettiamo dei posti di blocco su tutte le strade intorno. E mandiamo qualcuno a Cavriago: domani notte non un solo repubblichino deve mettere fuori il naso dalla caserma.

Dovremo sudarcela parecchio, ma non ce le porteranno via. Sono figlie nostre. Questo Natale lo passeranno qui, a casa.

Sì ma se riusciamo a tirarle fuori di lì, poi che facciamo ?

Le nascondiamo al sicuro in ogni casa, in ogni angolo e su in montagna.

Passate la voce: domani alle sette di sera tutti pronti. Nel bene e nel male, ci ritiriamo solo ai cinque colpi di moschetto.

Domenica 17 dicembre 1944, sette del mattino, ai piedi delle colline reggiane.

Papà, papà, papà.
Sa gh’é da sbrajèr con cal frèdd che.
Viene a vedere !
Sa vōt ?
Vieni a vedere dietro la quercia.
E che ci sarà mai dietro la quercia,da urlare tanto, un carrarmato?
Meglio papà, meglio.

Nella notte tra il 16 e 17 dicembre del 1944, in sole dieci ore, una cinquantina di membri della 76^ brigata Sap (squadre d’azione patriottica) sottrassero dai magazzini Locatelli di Barco quasi 3.000 delle 4.000 forme di Parmigiano Reggiano (annate 1941-42-43) destinate ad essere requisite dall’esercito tedesco per essere trasferite in Germania. Non si riuscì a portarle via proprio tutte per colpa di un guasto ad un camion in uno dei 50 viaggi di quella notte.
Nell’azione nessuno rimase ferito.

Circa settecento forme furono trasferite in montagna, le altre divise e distribuite a migliaia di famiglie dei paesi vicini, a secondo delle necessità.

In quel gelido, difficile e tremendo inverno del 1944 molti trovarono una bella sorpresa. Qualcuno anche sotto un albero.

Ad ideare e a comandare la spettacolare operazione furono Bruno Veneziani (Oddone) e il suo comandante S.

S. come Sirio.

Sirio come Paride Allegri. Partigiano e pacifista reggiano.

Volevo raccontarvi una storia, una storia vera. E se non fosse una storia emiliana e reggiana ad Hollywood l’avrebbero forse chiamata “Operazione Grattugia“.

Questa è una storia di guerra e, a suo modo, è una grande storia d’amore.

Amore per la propria terra, per la propria comunità e per la vita.

In ogni singola forma.

colinna tramonto

Il diritto a non essere d’accordo (con sé stessi)

Ho avuto qualche dubbio, per qualche attimo, per diversi motivi, ma alla fine sono andato a votare.

Nel frattempo sono tornato indietro per scoprire se vado ancora d’accordo con il me stesso di qualche anno fa: nel 2005 pensavo che chi invita ad “andare al mare” per sommare l’astensione cronica con quella intenzionale gioca la parte del biscazziere. Lo penso ancora.

Non che sia un bene in assoluto questa coerenza, che cambiare idea è una faccenda sacrosanta e salutare se non è figlia dell’opportunismo o della cialtroneria.

Cambiamo, cresciamo, invecchiamo e rimbecilliamo anche. E lo fa il resto del circo intorno a noi.

Dopo il voto di domenica ho letto e ascoltato molte riflessioni, tante invettive e innumerevoli sfoghi sulla scarsa partecipazione democratica e sull’inesistente senso civico degli italiani che preferiscono il pollo fritto dei centri commerciali alla cabina elettorale.

Un sentimento che è rimasto impresso sui tanti profili social, da Facebook a Twitter.

Questa intensa passione democratica si scontra però con i tanti esiti negativi dei referendum del passato, da quello sulla procreazione assistita del 2005 ai referendum seriali promossi dai Radicali.

Perché c’è stato un momento, a cavallo tra la fine degli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio, in cui questo Paese malediva Marco Pannella e la sua deriva referendaria.

Lo faceva al bar perché i social non esistevano ancora e a lasciare impronte delle proprie opinioni digitali era una esigua minoranza di nerd o giù di lì.

Per certi versi è una fortuna: l’opinione espressa al bar ha un tasso di volatilità maggiore rispetto ad un tweet e non obbliga a conformarsi al proprio passato per obblighi di coerenza.

Quindi se fra dieci anni qualcuno riuscirà ancora a recuperare un proprio tweet o un aggiornamento di Facebook, eserciti il sacrosanto diritto ad avere libere opinioni rispetto al genio o al coglione che era.

Un diritto all’oblio da sé stessi.

Perché cambiamo, cresciamo, invecchiamo e rimbecilliamo anche. E lo fa il resto del circo intorno a noi

Non dimentichiamolo. O forse sì.

Quando un voto costa 35 euro

Anche se è difficile ottenere in questo momento dati esatti e precisi (se qualcuno ne ha, sono graditi) il costo per garantire il voto agli ormai 4 milioni di italiani all’estero dovrebbe aggirarsi intorno ai 25 milioni di euro.

Un sistema che, con una esperienza decennale, si è dimostrato costoso, inefficiente e sgangherato. Basta leggersi i resoconti parlamentari delle audizioni dei responsabili dell’ufficio centrale della circoscrizione estero del passato.

Burocrazia, confusione, brogli, sprechi ed errori.

Un paio di dati di domenica per disegnare un quadro sconfortante.

Le schede nulle sono state 8,5% mentre in Italia lo 0,67%.

I voti validi sono stati poco meno di 700.000 ovvero il 17,5% degli aventi diritto ovvero un costo stimabile di circa  35 euro a voto valido.

Forse è ora di pensare seriamente ad una sperimentazione del voto elettronico da remoto per gli italiani all’estero.

E’ sempre lo stesso posto

E’ sempre lo stesso posto, ma non è mai lo stesso posto. Certe mattine c’è più silenzio e lo senti subito. Questa relazione con la solitudine, ricercata e non subita, qualcosa vorrà pur dire.

Sono ancora molto a mio agio con il chiasso dell’umanità, con i bicchieri che cioccano, le risate, i vicoli che puzzano, le passioni che scaldano.

Però torno qui, sempre nello stesso posto, che non è mai lo stesso posto.

Qualcosa vorrà dire.

tessera elettorale referendum

Il grande spreco di energia

Quattro elezioni politiche, tre europee, tre regionali, tre provinciali, tre comunali, due referendum costituzionali, tredici referendum abrogativi. Un totale di sedici turni elettorali (e altrettanti timbri) da quando, dal 2001, esiste la tessera elettorale.

Ho votato (con il senno di poi) gente scapestrata, persone degne, personaggi in cerca d’autore e candidati competenti. Sono stato piuttosto fedele a certe convinzioni, altre volte ho sperimentato. Ho seguito la ragione e di tanto in tanto la passione.

Ho espresso la mia opinione su grandi temi e su piccole astruserie, tipo la “servitù coattiva di elettrodotto”.

E ora sono li pronto a farmi mettere, domenica 17 aprile, il diciassettesimo timbro.

Vado a votare anche se trovo questo referendum un grande spreco di energia.

Un esercizio democratico sostanzialmente inutile per la comunità, buono solo per misurare il grado di renzismo e antirenzismo del paese.

Vado a votare, ma non ho ancora deciso se “” o “No”, pur avendo letto e ascoltato molti argomenti opposti, conditi spesso da un altissimo tasso di demagogia.

Vado al seggio, da elettore adulto, per rispondere ad un quesito preciso “sull’abrogazione dell’articolo 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n.152” e non per salvare il futuro dell’umanità.

Non so se riuscirò a farlo con la ragione dovuta, perchè, con buona pace degli impallinati della democrazia diretta sempre e comunque, non ho abbastanza competenze.

Al massimo comunque faccio come ai caucus dell’Iowa: tiro la monetina.

Vado a votare, in verità, perchè con questo referendum e con quello di ottobre prossimo finisco i bollini.

E vedi mai che alla fine non si vinca qualcosa: un set di pentole o un Paese più decente.

federica guidi tempa rossa

La lobby è sempre nell’emendamento

La sera di venerdì 17 ottobre 2014 la commissione ambiente della Camera sta discutendo, in sede referente, il disegno di legge che giornalisticamente viene definito “Sblocca Italia”. La seduta è iniziata alle dieci di mattina e continua ad oltranza. All’ora di cena il rappresentante del Governo (con tutta probabilità il sottosegretario allo sviluppo economico Simona Vicari) presenta un emendamento (il 37.52) che prende di sprovvista tutti, compreso il capogruppo del Partito Democratico. L’emendamento vuole applicare deroghe speciali ad alcune tipologie di opere molto specifiche e particolari.

Le opposizioni insorgono e il presidente della commissione Realacci (PD) giudica l’emendamento inammissibile.

L’emendamento è quello che in una intercettazione il ministro Guidi definisce con il proprio fidanzato “quello che mi hanno fatto uscire quella notte“.

La ministra Guidi però non si arrende e a metà dicembre presenta l’emendamento 2.9818 alla legge di stabilità, in sostanza lo stesso che ha cercato di far passare nottetempo con un blitz in commissione ad ottobre.

In quei due mesi di attesa nel frattempo il fidanzato del ministro continuava nella sua attività di lobbying. A quanto pare efficace.

Pregare per

L’hashtag “#PrayForNigeria” che ha cominciato a scalare le classifiche di Twitter da ieri è uno “splendido” esempio di come i social possano veicolare pessima informazione.

In risposta agli attentati di Bruxelles è scattato il meccanismo (ormai un classico): “e degli altri morti non parla nessuno ? E i media che fanno ?

Così qualcuno ha preso gli attacchi di Boko Haram al villaggio di Dalori nel nord est della Nigeria di fine gennaio e li ha trasformati nella strage di 86 bambini di oggi, con tanto di foto ormai diventata anch’essa un classico quando si parla di attentati o stragi in Africa, ovvero quella dell’incidente di una cisterna di benzina in Repubblica Democratica del Congo nel 2010.

 

L’ultimo scatto

Tomasz Kizny è un fotografo polacco con un passato in Solidarność. Ha dedicato molta della sua vita professionale alla ricerca storica sui gulag sovietici. Da qualche anno in giro per l’Europa ci sono sue mostre e progetti su questo tema.

Camera è piccolo e giovane spazio dedicato alla fotografia a Torino. Ospita fino a maggio una mostra piuttosto pubblicizzata del legame tra crimini e tecnica fotografica. All’interno della mostra uno dei momenti più potenti è proprio quello di Tomasz Kizny sui ritratti delle vittime delle purghe staliniane tra del 1937 e il 1938.  Una carrellata di una novantina di foto e didascalie estratte dagli immensi archivi della polizia politica.

Un esempio di come la fotografia, suo malgrado, possa raccontare in modo impareggiabile una storia e la Storia.

rital darwish idomeni

Rital

Ciao Rital.

In quaranta giorni in questo mondo i tuoi occhi hanno visto molte cose. Cose che basterebbero per una vita intera.

Spero riuscirai a passare, insieme alla tua famiglia, quel filo spinato che ti abbiamo messo davanti lì a Idomeni, nel tuo lungo viaggio dalla Siria.

Spero riuscirai a crescere bene, ad andare a scuola, a giocare in un prato. Spero diventerai una ragazza spensierata, una donna consapevole, una buona madre, una nonna che racconta storie e fa sorridere.

Spero, con un filo di egoismo, che lo farai qui in mezzo a noi in Europa, perché ne abbiamo dannatamente bisogno.

Salvati Rital, per salvare un po’ anche noi.

Wasil Ahmad

Sotto una coperta scura

Wasil Ahmad è cresciuto in fretta, con poca voglia di studiare. Succede in quel casino crudele che si chiama Afghanistan.

La scorsa estate lo zio, comandante talebano poi passato nelle fazioni governative, gli ha messo in mano un lanciarazzi e il comando di un gruppetto di uomini. Per un mese e mezzo hanno resistito all’assedio delle milizie talebane.

Alla fine la propaganda governativa gli ha messo indosso una divisa troppo larga e un kalashnikov mezzo scassato e gli ha fatto un sacco di foto. Doveva essere un piccolo grande eroe afgano. Almeno per una settimana.

Poi la settimana è passata.

Lunedì scorso Ahmad è uscito di casa per andare al mercato. Un uomo in motocicletta gli si è avvicinato e lo ha freddato con due colpi in testa. Tutti avevano dimenticato, i talebani invece no.

Wasil Ahmad è morto in fretta. Aveva 10 anni. Succede in quel casino crudele che si chiama Afghanistan.