Daphne era una rompicoglioni.
Una rompicoglioni come pochi.
Libera, negli strumenti e nelle opinioni.
A volte spietata, a volte azzardata, quasi sempre temuta.
Daphne era tutto questo in un coriandolo di terra in mezzo al Mediterraneo dove tutti si conoscono, dove i nomi sono sempre gli stessi, dove spesso “cane non mangia cane”.
Malta è più piccola della provincia di Prato e di fatto Daphne era una cronista locale che scriveva su un blog.
Solo che quel blog lo leggevano tutti: estimatori e nemici giurati.
Solo che quel blog parla di una piccola provincia che in verità è una giovane nazione europea, investita negli ultimi anni da un immenso fiume di denaro che ne sta cambiando l’aspetto e l’anima.
Gioco d’azzardo hi-tech, passaporti facili, traffico di droga, contrabbando, speculazioni immobiliari.
Tutto concentrato nel tempo e nello spazio, in un pezzo di terra circondato dall’acqua, dove tutti conoscono tutti e dove sicuramente qualcuno conosce anche la verità.
La verità in fondo cercava Daphne. Nient’altro che la verità.
Oggi su Avvenire Nello Scavo ci riporta dell’incontro con Josepha e del lento miglioramento delle sue condizioni da quel mattino del 17 luglio 2018, quando Open Arms la recuperò su un gommone in mezzo al Mediterraneo, ormai sfinita, assieme al cadavere di un’altra donna e a quello di un bambino.
Ricostruire cosa è accaduto a Josepha e ai suoi compagni di viaggio (quelli vivi e quelli morti) mi è parso da subito un modo per ridare umanità e senso alle storie delle migliaia di persone che hanno tentato di attraversare il mare in questi anni.
L’ho fatto in due post nei giorni immediatamente successivi al ritrovamento, cercando di mettere insieme più fatti possibili: tracce gps, immagini, video, comunicati. I due post sono questi:
Tutti gli elementi di fatto dicono che Josepha, assieme all’altra donna e al bambino, è stata abbandonata (forse perché ritenuta morta) dopo che il gommone è stato intercettato dalla “guardia costiera” libica.
Quale unità della “guardia costiera” libica è responsabile di questo intervento e dell’abbandono in mare ?
Verde. Dov’è quella maledetta corda verde.
Il 16 luglio 2018 ci furono due interventi della “guarda costiera” libica. Uno a 26 miglia nautiche da Homs, che è avvenuto di giorno (tanto che organi di informazione locali lo riportavano già nella prima serata del 16 luglio) e uno a circa 80 miglia nautiche dalla costa libica, effettuato nella tarda serata (intorno alle 22.00) dalla motovedetta “648 Ras Al Jadar” su cui era imbarcata per un servizio anche la giornalista tedesca Nadja Kriewald.
Quest’ultimo intervento è compatibile per posizione ed orari con la segnalazione del porta container Triades e con la zona di recupero del gommone di Josepha da parte di Open Arms.
Era lo stesso gommone ? La testimonianza di Nadja Kriewald, utilizzata da molti (compresi Viminale e autorità libiche) per evidenziare il corretto comportamento della “guardia costiera” libica, indurrebbe a pensare di no. In verità la versione della giornalista tedesca è meno assertoria e più sfumata, come riferita nell’immediatezza dei fatti dal collega Udo Gumpel:
non può confermare certamente, data la situazione notturna, che dopo il trasbordo dal gommone a bordo della nave non ci fosse rimasto nessuno a bordo
Oltre alle parole di Nadja Kriewald, su quanto accaduto quella sera, possono testimoniare le immagini girate dal suo operatore finite poi in diversi servizi tv.
Dall’analisi di quelle immagini finora erano emersi diversi indizi di una straordinaria identità tra il gommone soccorso dalla “648 Ras Al Jadar” e quello trovato la mattina dopo da Open Arms.
I due gommoni erano identici per dimensione, forma, colore e particolari.
Ecco, i particolari.
L’obiezione legittima è che molti gommoni di trafficanti si assomigliano.
Questi due però sono identici anche in una coincidenza davvero sorprendente: entrambi sulla poppa (uguale per sagomatura e colore) presentano nella stessa identica posizione due segni rossi di vernice fatti a mano.
Una coincidenza straordinaria a cui se ne aggiunge un’altra.
Molte volte ho guardato la foto che ha scattato Pau Barrena prima che gli uomini di Open Arms recuperassero Josepha. In quella foto il gommone è ancora “integro”, sgonfio ma integro. Si vedono i corpi delle tre persone a bordo, si vedono i segni rossi sulla poppa e poi, tra i molti resti, quella corda verde legata a tribordo (il lato destro).
L’altro giorno ho letto che Libyen – Rettungs-Aktion mit der Küstenwache (il titolo del servizio di Nadja Kreiwald sulla Ras Al Jadar) è tra i candidati del premio “German Human Rights Film Awards” e così l’ho cercato e l’ho guardato su Youtube.
Non era ovviamente la prima volta, né la seconda, né la terza. Forse la centoventesima.
Oltre a cercare sempre inutilmente di individuare nelle immagini buie e sgranate il fantasma del volto di Josepha, avevo cercato e trovato, a suo tempo, i segni rossi sulla poppa.
E niente di più.
Niente più, a parte quel tizio strano che compare brevemente nei filmati e che si muove con agilità e arroganza in mezzo alla folla del gommone. Giovane, cappellino buttato indietro, vistosa collana addosso, stonava con il resto del gruppo di migranti.
Ma attirato da lui e dal suo essere quasi “fuori luogo” non avevo notato fino ad oggi che, in un frammento di immagine, il tizio strano cerca di facilitare “l’abbordaggio” tra le due imbarcazioni assicurandosi al gommone.
Lo fa legandosi malamente a tribordo con una corda.
Amina è arrivata nella baraccopoli di San Ferdinando nel gennaio di quest’anno.
San Ferdinando è a due passi da Rosarno in Calabria.
E’ quel posto dove vivono, si fa per dire, quelli che raccolgono le arance e i mandarini nella piana di Gioia Tauro. E’ anche quel posto dove ogni tanto qualcuno muore.
L’ultimo in ordine di tempo, a giugno, è stato Soumaila Sacko, quel ragazzo del Mali a cui hanno sparato una fucilata mentre raccoglieva da una fabbrica abbandonata delle lamiere per rinforzare il tetto precario sotto cui dormiva.
Amina a San Ferdinando era arrivata da una manciata di giorni. Sono bastati per ritornare a prostituirsi nelle mani della mafia nigeriana e per morire nel grande incendio che ha divorato in una notte duecento baracche.
Era il 27 gennaio.
Quattro mesi dopo, il 25 maggio, dall’altra parte dell’Aspromonte, a Riace, ad un’ora di macchina da San Ferdinando, è una bella giornata di sole.
Nel cimitero ci sono il prete, gli amici, i conoscenti a dare l’ultimo saluto a Becky Moses. La ricordano tutti sempre sorridente in quei due anni che aveva passato in paese.
Al cimitero c’è anche il sindaco, che si chiama Domenico Lucano. Mimì o Mimmo per quasi tutti. E’ quello che hanno messo oggi agli arresti domiciliari per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Nel comunicato della Procura di Locri si sottolinea come Mimì fosse parecchio “spregiudicato” (hanno scritto così) nel cercare di far rimanere a Riace quelli che erano “diniegati“, che è uno di quei termini disgraziati con cui la burocrazia indica quelli a cui viene rifiutato il permesso di soggiorno per motivi umanitari o il diritto d’asilo. I “diniegati” sono come fantasmi: senza documenti, senza diritti, senza possibilità, abbandonati alla legge del più forte o del più furbo.
Pur di non perdere qualcuno, di non abbandonarlo, Mimì era disposto a fare “carte false”. Forse anche letteralmente. Anche a far sposare qualcuno, magari per finta.
Anche a Becky Moses Mimì aveva fatto i documenti. C’è la sua firma sulla carta d’identità della ragazza.
La data è il 21 dicembre 2017.
Una settimana dopo Becky deve andarsene da Riace come molti altri. I soldi dal ministero non arrivano, lei è una “diniegata”, Mimì deve chiudere parte dei centri d’accoglienza.
Di Amina, dopo il rogo di San Ferdinando, nessuno reclamerà il corpo o quello che resta.
Troverà riposo solo quando Domenico Lucano, detto Mimì, deciderà di riportarla a casa, a Riace.
Quel giorno di sole di maggio al funerale nel piccolo cimitero Domenico Lucano si toglierà la fascia di sindaco. Mimì sente tutto il peso della responsabilità di aver permesso che Becky, in meno di un mese, passasse dalla vita di Riace alla disperazione e alla morte di San Ferdinando.
All’entrata laterale della chiesa la fila si allunga di prima mattina.
Risse, puttane e sbruffonate. Si sta in coda nel sudore di un caldo africano per uno che amava mescolarsi all’umanità dei bassifondi e poi fissare le luci e le ombre della vita nell’eternità della tela.
Il Giovanni di Caravaggio è lì, testa a terra. Solo.
Solo come un uomo che gridava nel deserto.
Il Monumento dell’Assedio, che sta proprio di fianco alla fila di turisti e di fronte al Palazzo di Giustizia di Valletta, è oscurato da uno di quei cartelloni che si mettono a lavori in corso. Ma di lavori nemmeno l’ombra.
Ogni giorno qualcuno lascia lì davanti qualcosa. Ogni sera qualcuno, in nome del decoro e a favore dell’oblio, toglie tutto.
Ogni giorno qualcuno rimette qualcosa: una candela, un biglietto, un fiore.
E’ una guerra di posizione che si trascina da settimane: da un parte chi vuole dimenticare e andare avanti nei propri affari, e dall’altra chi non si rassegna e vuole verità e giustizia.
Giustizia per Daphne Caruana Galizia, una che raccontava l’altra Malta, quelle delle molte ombre dietro le luci.