Mimì e i diniegati

Amina è arrivata nella baraccopoli di San Ferdinando nel gennaio di quest’anno.

San Ferdinando è a due passi da Rosarno in Calabria.

E’ quel posto dove vivono, si fa per dire, quelli che raccolgono le arance e i mandarini nella piana di Gioia Tauro. E’ anche quel posto dove ogni tanto qualcuno muore.

L’ultimo in ordine di tempo, a giugno, è stato Soumaila Sacko, quel ragazzo del Mali a cui hanno sparato una fucilata mentre raccoglieva da una fabbrica abbandonata delle lamiere per rinforzare il tetto precario sotto cui dormiva.

Amina a San Ferdinando era arrivata da una manciata di giorni. Sono bastati per ritornare a prostituirsi nelle mani della mafia nigeriana e per morire nel grande incendio che ha divorato in una notte duecento baracche.

Era il 27 gennaio.

Quattro mesi dopo, il 25 maggio, dall’altra parte dell’Aspromonte, a Riace, ad un’ora di macchina da San Ferdinando, è una bella giornata di sole.

Nel cimitero ci sono il prete, gli amici, i conoscenti a dare l’ultimo saluto a Becky Moses. La ricordano tutti sempre sorridente in quei due anni che aveva passato in paese.

Al cimitero c’è anche il sindaco, che si chiama Domenico Lucano. Mimì o Mimmo per quasi tutti. E’ quello che hanno messo oggi agli arresti domiciliari per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Nel comunicato della Procura di Locri si sottolinea come Mimì fosse parecchio “spregiudicato” (hanno scritto così) nel cercare di far rimanere a Riace quelli che erano “diniegati“, che è uno di quei termini disgraziati con cui la burocrazia indica quelli a cui viene rifiutato il permesso di soggiorno per motivi umanitari o il diritto d’asilo. I “diniegati” sono come fantasmi: senza documenti, senza diritti, senza possibilità, abbandonati alla legge del più forte o del più furbo.

Pur di non perdere qualcuno, di non abbandonarlo, Mimì era disposto a fare “carte false”. Forse anche letteralmente. Anche a far sposare qualcuno, magari per finta.

Anche a Becky Moses Mimì aveva fatto i documenti. C’è la sua firma sulla carta d’identità della ragazza.

La data è il 21 dicembre 2017.

Una settimana dopo Becky deve andarsene da Riace come molti altri. I soldi dal ministero non arrivano, lei è una “diniegata”, Mimì deve chiudere parte dei centri d’accoglienza.

Di Amina, dopo il rogo di San Ferdinando, nessuno reclamerà il corpo o quello che resta.

Troverà riposo solo quando Domenico Lucano, detto Mimì, deciderà di riportarla a casa, a Riace.

Quel giorno di sole di maggio al funerale nel piccolo cimitero Domenico Lucano si toglierà la fascia di sindaco. Mimì sente tutto il peso della responsabilità di aver permesso che Becky, in meno di un mese, passasse dalla vita di Riace alla disperazione e alla morte di San Ferdinando.

Amina era Becky, una mese prima, una vita prima.

Daphne, che gridava nel deserto

All’entrata laterale della chiesa la fila si allunga di prima mattina.

Risse, puttane e sbruffonate. Si sta in coda nel sudore di un caldo africano per uno che amava mescolarsi all’umanità dei bassifondi e poi fissare le luci e le ombre della vita nell’eternità della tela.

Il Giovanni di Caravaggio è lì, testa a terra. Solo.

Solo come un uomo che gridava nel deserto.

Il Monumento dell’Assedio, che sta proprio di fianco alla fila di turisti e di fronte al Palazzo di Giustizia di Valletta, è oscurato da uno di quei cartelloni che si mettono a lavori in corso. Ma di lavori nemmeno l’ombra.

Ogni giorno qualcuno lascia lì davanti qualcosa. Ogni sera qualcuno, in nome del decoro e a favore dell’oblio, toglie tutto.

Ogni giorno qualcuno rimette qualcosa: una candela, un biglietto, un fiore.

E’ una guerra di posizione che si trascina da settimane: da un parte chi vuole dimenticare e andare avanti nei propri affari, e dall’altra chi non si rassegna e vuole verità e giustizia.

Giustizia per Daphne Caruana Galizia, una che raccontava l’altra Malta, quelle delle molte ombre dietro le luci.

Una che, sola, gridava nel deserto.

Il gommone di Josefa

Cosa è successo a Josefa e ai suoi compagni di viaggio ?

Qui avevo provato a rispondere mettendo insieme un po’ di dati e fatti, in mezzo a tantissima confusione (che le autorità italiane potrebbero aiutare a dissolvere pubblicando tracciati, immagini satellitari e comunicazioni in loro possesso).

Open Arms ha parlato di abbandono di persone in mare. Il ministro Salvini ha parlato di fake news. La “guardia costiera” libica ha parlato di “soccorso professionale” portando la testimonianza della giornalista tedesca Nadja Kriewald imbarcata su una motovedetta che è intervenuta nel salvataggio di un gommone e che afferma che tutti, per quanto ne sa, sono stati tratti in salvo.

Qualcuno ha cominciato a sostenere che si trattasse di due interventi diversi e di due gommoni diversi. Ma probabilmente non è così e le cose si complicano e diventano più gravi.

Una delle foto che è circolata meno sul ritrovamento del gommone da parte di Open Arms è stata scattata da Pau Barrena. E’ quella sopra.

Rispetto alle altre è stata scattata da più lontano e prima di intervenire per salvare Josefa. Il gommone, seppur sgonfio e danneggiato, non è ancora in pezzi. E’ “integro” e per prima cosa ci racconta che i corpi erano a bordo, impossibili da non vedere.

Rispetto alle altre immagini ci fa notare anche alcuni particolari del gommone ed in specifico la poppa, dove era posizionato il motore. Sul lato sinistro si nota evidente un segno rosso verniciato.

(aggiornamento: in una versione a più alta definizione anche sul lato destro si nota un segno rosso sul bordo posteriore rigido del gommone ormai piegato in acqua)

Nadja Kriewald e la N-TV hanno pubblicato finora solo un primo breve video del soccorso al gommone.

Ci sono solo pochi fotogrammi del gommone ripresi di notte. Si nota però un particolare: un segno rosso.

A destra è nella stessa posizione di quello della foto di Pau Barrena.

Sul lato sinistro siede invece un uomo e la zona rimane in ombra. Schiarendo digitalmente l’immagine ed esaltando la saturazione si nota però qualcosa di rosso sul bordo (non la maglietta dell’uomo).

Sono immagini di scarsa qualità, ma Nadja Kriewald e il suo operatore hanno molto “girato” della scena del recupero e quindi anche del gommone. Immagini a più alta qualità che riusciranno ad evidenziare meglio questi dettagli, che se confermati, indiscutibilmente evidenzierebbero che si tratta dello stesso gommone.

E che tre esseri umani sono stati abbandonati in mezzo al mare.

Cosa è successo a Josepha ?

Ricostruire cosa è accaduto a Josepha e ai suoi compagni di viaggio (quelli vivi e quelli morti) nel mezzo del Mediterraneo a metà luglio 2018 è un modo per ridare umanità e senso alle storie delle migliaia di persone che hanno tentato di attraversare il mare in questi anni.

Josepha è rimasta aggrappata per molte ore alla vita e ai resti di un gommone. Noi proviamo a rimane aggrappati ai fatti e se possibile alla verità.

Ore 7.30 di martedì 17 luglio: una barca della ong spagnola Open Arms trova a circa 80 miglia dalla costa libica (e altrettante da Lampedusa) i resti di un gommone con i cadaveri di un bambino e una donna. E poi trova Josepha, che è ancora viva.

Ore 16.00 di lunedì 16 luglio (il giorno prima): nell’area del ritrovamento di Josepha entra la portacontainer Triades diretta a Misurata. Probabilmente avvista i migranti e avverte autorità (quali è da stabilire). Triades, come evidenziano le tracce registrate, rimane lì fino a dopo le 22.00. Siamo al confine tra l’area SAR (Search and Rescue) di Malta e la neo-costituita (meno di un mese fa) SAR libica. Fino a giugno il soccorso sarebbe stato di competenza europea.

Ore 22.00 di lunedì 16 luglio:  Arriva sul luogo una imbarcazione della guardia costiera libica. La testimonianza è della giornalista tedesca Nadja Kriewald presente con un operatore a bordo. Le operazioni di soccorso di 165 persone sarebbero continuate fino alle 23.00. La Kriewald afferma (nel racconto riportato da Udo Gumpel) che “non può confermare certamente, data la situazione notturna, che dopo il trasbordo dal gommone a bordo della nave non ci fosse rimasto nessuno a bordo” e che “non si può neanche sapere se c’era, nelle medesime acque, un altro gommone simile“.

Il racconto combacia con il comunicato della guardia costiera, riportato dai media libici, sul salvataggio di 165 persone (e del cadavere di un bambino piccolissimo) a 76 miglia a nord della costa di Gasr Garabulli, tra Tripoli e Homs. Nello stesso comunicato, dato molto importante, la guardia costiera libica si lamenta delle mancanza di mezzi adatti al soccorso notturno.

I migranti recuperati, secondo la guardia costiera, sono poi arrivati a Tripoli alle 4 del mattino del 17 luglio per poi essere trasferiti al centro di detenzione di Tajura.

Secondo Kriewald (e secondo la guardia costiera libica) i migranti erano in mare da tre giorni e questo è compatibile con i primi racconti di Josepha.

I fatti fin qui.

Rimangono aperte alcune domande: 

Chi ha avvistato per primo i gommoni ?

E’ stato contattato il centro MRCC di Roma ? E se sì quando ?

Perchè sono stati lasciati in mare cadaveri e una superstite ?

Quali operazioni di soccorso ha svolto la Triades ?

A Bettola

Buio. Di quelli che oggi non si possono spiegare.

E poi raffiche infinite e le urla, disperate.

Silenzio ancora. Un silenzio da gelare in una notte d’estate.

Solo le fiamme alte sotto Monte Duro e niente più.

Poi l’alba e il primo sole.

I soldati che si lavano via il sangue e l’odore di morte nell’acqua del torrente.

Quello che rimane della bellezza leggera di una ragazza di vent’anni è un pezzo del vestito a pois nella cenere.

La cenere di 32 corpi, uomini donne e bambini, che la premeditata e spietata violenza nazifascista ha lasciato dietro di sè qui, nella notte di San Giovanni.

Per l’eccidio della Bettola nessuno pagherà. I nomi dei responsabili per decenni sono rimasti chiusi, insieme a molti altri, in uno sgabuzzino polveroso dentro un armadio romano con le ante rivolte al muro.

Tutto questo è successo lontano nel tempo e vicino nello spazio. Ma succede ancora, vicino nel tempo e lontano nello spazio.

A noi la responsabilità concreta che non succeda più.

Per noi stessi, per quelli che verranno e per quelli che ci hanno preceduto.

Per Maria, Zelindo, Gianni, Ettore, Laura, Argentina, Bruno, Franca, Franco, Giuseppe, Emma, Itala, Gino, Wilma, Walter, Alfreda, Pietro, Francesco, Emma, Eurosia, Igino, Abramo, Eva, Giovanni, Felicita, Ligorio, Marianna, Tito, Bruno, Emore, Basilio, Pierino, Enrico, Guerrino e Pasquino.

Quello che Conte

Un avvocato professore. Uno come ce ne sono decine in Italia, forse di più.

Un curriculum accademico lungo ed abbellito con i nomi altisonanti di università prestigiose in cui ha “soggiornato” quando l’estate faceva capolino.

E pochissime altre informazioni utili (al momento) per chi è stato indicato come guida del governo della settimana economia del mondo.

La mia prima impressione (solo quella) su Giuseppe Conte è che al curriculum potrà aggiungere: estate 2018 “soggiorno studio presso Palazzo Chigi”.

 

Le leggi biodegradabili

[Attenzione, concentrazione, ritmo, velocità.]
 
Di certo non vi sarà sfuggita la decisione del Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa italica, sulla questione (seconda per importanza solo ai pericoli connessi alla caduta improvvisa di stazioni spaziali cinesi) dei sacchettini per la frutta e la verdura.
 
Il Consiglio di Stato ha confermato al Ministero della Salute che non siete obbligati a pagarli al supermercato, ma ve li potete comprare dove vi pare e portarveli dietro da casa.
 
Però attenti eh.
 
Secondo il Consiglio di Stato il commerciante, deve (e ripetiamo insieme deve) per legge controllare che il sacchettino in cui avete posizionato frutta e verdura sia conforme alle norme contenute nel regolamento comunitario n.1935 del 2004 e successivi allegati, nonché al regolamento (UE) 1895/2005 sulla restrizione dell’uso di alcuni derivati epossidici in materiali e oggetti destinati a entrare in contatto con prodotti alimentari, nonché al regolamento (CE) 282/2008 sugli oggetti in plastica riciclata destinati al contatto con gli alimenti, nonché al regolamento (CE) 450/2009 sui materiali attivi destinati al contatto con gli alimenti.
 
A quel punto, se la cassiera non ha già ottenuto una cattedra in diritto alla Sorbonne e quello in fila dietro di voi non è morto di stenti, potete tornarvene a casa lieti e fieri di aver fottuto il sistema.
 
Poi, fortunatamente, giungerà l’estinzione (previo parere favorevole del Consiglio di Stato).

La classe dirigente

Breve storia triste.

In centro a Reggio Emilia c’era una sala per il gioco d’azzardo che non era regolare. Il Comune vince un contenzioso con la proprietà e nei locali realizza uno spazio a disposizione di iniziative culturali giovanili. L’inaugurazione dello spazio viene promossa anche con alcuni cartelloni pubblicitari affissi in città.

Uno di questi attira oggi l’attenzione del neo deputato Gianluca Vinci di ritorno dalla trasferta romana dove ha appena contribuito ad eleggere il Presidente della Camera.

Inutile dire che l’attenzione del deputato Vinci è stata catalizzata su questo cartellone semplicemente perché il colore della pelle della ragazza è nero.

Nel 2018. In Italia. A Reggio.

Voi fate come volete, ma io mi vergogno per la mia città.

(tralascio i commenti sotto il post del deputato Vinci che evidentemente ha la base elettorale che si merita).

Daniel e Benoît

Sabato 10 marzo Benoît Ducos ha trovato tra le nevi del Montgenèvre una famiglia nigeriana: madre, padre e due bambini piccoli che avevano appena attraversato a piedi illegalmente il confine italo-francese.

La donna era incinta all’ottavo mese.

Benoît li ha caricati in macchina per portarli in fretta all’ospedale. Poco dopo è stato bloccato dalla polizia e denunciato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Daniel è nato poche ore dopo a Briançon. Sta bene.

In montagna come in mezzo al mare, nonostante tutto e tutti, sopravvive una regola antica: prima la vita.

Ci sono quelli che la chiamano illegalità, e quelli invece che la chiamano civiltà.

All’ombra dell’ultimo sole

PS: “comunque se il suo cane ha bisogno di prender confidenza con l’acqua, sa dove trovarmi”.

Finisce così una mail che oggi ho ricevuto dal signor G.

Che io sinceramente all’inizio manco me lo ricordavo il signor G, poi ho fatto mente locale. 

Il signor G è un distinto neo-pensionato che ho conosciuto qualche tempo fa su un treno. 

Avete presente quelle chiacchiere improvvisate da vicini di sedile su treni o troppo freddi o troppo caldi ? Quelle dove i minuti scivolano via tra una banalità sul meteo e una battuta sul cibo ? Beh, quella volta con il signor G non è andata esattamente in quel modo.

Il signor G non si chiama nemmeno così, ma con quel naso e gli occhi spiritati un po’ mi pareva d’aver davanti un cugino alla lontana di Gaber e allora beh, l’ho battezzato.

Come si chiama il suo cane ? 

Il signor G aveva allungato l’occhio sullo schermo del mio cellulare.

“Se glielo dico si mette a ridere, sia che le dica il nome che il soprannome. E’ una roba un po’ strana”.

Ah ma se vuol sentire una roba strana sui cani gliela racconto io“.

In effetti aveva ragione. In breve la storia è questa. Continue reading →

La parte del torto

Spesso e volentieri mi son seduto qui dalla parte del torto. Praticamente sempre. C’ho una specie di sesto senso.

A me i carri dei vincitori piace guardarli da lontano mentre si avviano carichi di certezze, proclami, ricchi premi e cotillons.

Anche oggi sono qui, perché non volevo deludermi.

A quei pochi o molti che non sono abituati a questa condizione, a quelli che magari non sono fatti per le sconfitte, a quelli che dalla parte del torto ci stanno giusto il tempo di un respiro, forse tutto questo parrà insopportabile.

Vorrei dire che vi capisco, ma non ci riesco.

Non è che mi innamoro delle sconfitte, ma credo che gli sconfitti abbiano molto spesso meravigliose storie da raccontare. E nel silenzio della parte del torto si ascolta molto meglio.

A quelli che hanno vinto, vincono o vinceranno, la mia comprensione e solidarietà. Io, nell’assordante e abbondante compagnia della vittoria, non resisterei dieci minuti. Non c’ho il fisico.

Ma non vi rattristate, prima o poi piccole e grandi sconfitte tornano a graziarci.

E’ probabile che quel giorno mi troverete lì, dalla parte del torto.

Se volete, sedetevi pure.

Qui c’è un sacco di tempo per ascoltare.
E per ricominciare a lottare.

L’inverno alle urne

Un’altra domenica in cui voteremo con la neve a terra e il freddo alla porta.

Comunque vada, l’inverno è già qui. Da molti mesi, da diversi anni.

Quello che soffia in Europa è l’inverno dei nazionalismi, dei populismi, degli egoismi.

Non lo vedi solo nelle urne dove crescono, lenti o irruenti, i fantasmi del passato incarnati nelle comparse rampanti ed indecenti del presente.

Lo vedi nella comunicazione, lo senti al mercato, lo annusi nelle conversazioni banali sui treni.

L’inverno è qui, accanto a noi. Dentro di noi.

L’inverno è qui, ma passerà.

Non lo farà domani o dopodomani. Sarà una battaglia lunga, perché si combatterà sul terreno gelato della coscienza e della conoscenza.

Non passerà da solo questo inverno, ma con l’impegno semplice e quotidiano di molti, in molte parti, in molti ruoli.

L’inverno è qui – ma diavolo – quanto è bella la primavera ?

 

 

La guerra fredda

Alì Babà portava il sombrero. Detta così suona strana, ma è vero.

Era largo e fuori misura, ma faceva parata.

C’attaccava roba strana, per lo più soldi di paesi lontani.

Non c’aveva tesori Ali Babà ma si portava dietro le Bombe.

Se chiedi di lui ad uno di Rimini che ha passato i quaranta gli fai venire il magone e una botta di nostalgia. Altro che Proust e la sua madeleine.

Alì Babà c’aveva le “Boooombe” (urlato bene) che vendeva a piccoli e grandi su e giù per i chilometri di sabbia della spiaggia più famosa d’Italia.

Le Bombe erano poi i ghiaccioli, dei signori ghiaccioli. Li producevano in un angolo della Romagna con quella forma lì strana ed elegante.

Dieci anni fa il titolare dell’azienda stava per smettere quando due giovani imprenditori hanno preso in mano l’attività e rilanciato il marchio.

Il prodotto era ottimo e con quell’effetto nostalgia molto potente. Una madeleine ghiacciata appunto.

Il problema è che le piccole Bombe non servono a molto contro le divisioni corazzate delle multinazionali, in questo caso Unilever, che attraverso il marchio Algida controlla circa il 70% del mercato della vendita del gelato singolo confezionato (per intenderci quello dei bar).

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Fino alla prossima indignazione

Prendi un caso di cronaca, preferibilmente nera, facci un post o un tweet (veloce che la tempistica è tutto) generalizza, indignati e invita ad indignarsi.

In questo Matteo Salvini è praticamente un professionista. Ma la schiera di politici (o aspiranti tali) che sfrutta questo schema predatorio per raccattare un po’ di consenso è infinita, e pascola in lungo e in largo per tutto l’arco costituzionale. E anche più in là.

Del destino di quelli coinvolti nel caso di cronaca ci si dimentica presto. Del resto lo schema non lo prevede. Occorre passare all’orrore successivo, alla paura che verrà, al prossimo nemico.

Quasi due mesi fa a Torino, una donna, Concetta Candido, si è data fuoco all’ufficio dell’Inps di Torino perché disperata. Il più veloce, in quel caso, è stato Luigi Di Maio.

Nonostante la lugubre bufala della sua morte messa in circolo qualche giorno dopo i fatti, Concetta Candido è ancora viva. Fuori dall’occhio di bue del teatro della politica, la sua vita continua nel difficile percorso di recupero.

Ad aggiornare sulle sue condizioni, quasi quotidianamente, è il fratello: battaglie, progressi, dolori e piccole resurrezioni. La vita insomma. La vita vera, quella che poco interessa alla comunicazione politica e anche ai commentatori da social, pronti alla prossima indignazione per non annoiarsi.

L’altro giorno Concetta Candido ha ricevuto in ospedale la prima visita di un “non familiare”, uno che in questi mesi, in punta di piedi, ha fatto parte della minuscola pattuglia che si è affezionata al suo destino.

Che quel “non familiare” sia un bravo giornalista non credo sia un caso. A me piace pensare che ci sia ancora qualcuno pronto ad affezionarsi alla vita e alla storia delle persone.

Grazie Gad.

Il granello di sabbia

Il corpo martoriato, bruciato, torturato e sfregiato di Giulio è solo un granello di sabbia. Il dolore, la compostezza, la perseveranza della sua famiglia sono solo un granello di sabbia.

Due granelli di sabbia nel grande deserto umano degli interessi geopolitici che scaldano infine le nostre case e fanno girare le nostre aziende.

Dovremmo essere realisti e accettare il fatto che la vita e soprattutto la morte di un ragazzo di 28 anni non possono pregiudicare la nostra sicurezza economica, politica e sociale.

Sai quante migliaia di egiziani hanno fatto la stessa fine ? Sai quanti ragazzi e ragazze innocenti vengono torturati o uccisi in questo preciso momento sulla faccia della terra ?

Lo so, e puoi anche avere ragione: il mondo è un posto complicato.

Però – te lo dico con l’ipocrisia di chi apre il rubinetto e scende comunque acqua calda – io faccio il tifo perché quei due minuscoli granelli di sabbia inceppino il grande gioco di questi piccoli uomini. Piccoli uomini che si nascondono e si giustificano con le nostre comodità, le nostre paure, le nostre debolezze.

E invece, comunque vada, fino in fondo, fino alla verità.

Le risorse della Boldrini

[Avvertenza preliminare: non si tratta di una reductio ad Hitlerum. O forse sì]

Impiccarono Julius Streicher la mattina del 16 ottobre 1946. Fin sotto il patibolo continuò a proclamare il suo delirio nazista ed antisemita che aveva coltivato per i vent’anni n cui era stato il creatore ed editore del settimanale “Der Stürmer“, l’organo di propaganda preferito da Hitler.

“Der Stürmer” toccò nella seconda metà degli anni ’30 una circolazione di 480.000 copie. Era una lettura popolare e a volte giudicata “estremista” all’interno dello stesso partito nazionalsocialista.

“Die Juden sind unser Unglück!” era il motto stampato ben evidente su ogni prima pagina del settimanale: “Gli ebrei sono la nostra disgrazia!”.

Efferati delitti, crisi economica, stupri, omicidi rituali. Tutti i mali di Germania trovavano su “Der Stürmer” una risposta semplice ed immediata: gli ebrei.

Articoli e caricature, tra cui quelle famose di Philipp Rupprecht, contribuirono ad alimentare tra gli strati più popolari della popolazione tedesca l’odio verso gli ebrei e contro gli amici degli ebrei.

Der Stürmer contribuì a rendere popolari parole d’ordine della propaganda antisemita: ebrei parassiti, portatori di malattie, diabolici.

E “le risorse della Boldrini” ?

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La rotta libica

Con i dati ufficiali dell’ultimo giorno di luglio, dobbiamo registrare che gli sbarchi di migranti in Italia attraverso il Mediterraneo finora sono gli stessi del 2016, quando sulle prime pagine “l’emergenza sbarchi” non arrivava quasi mai.

Il mese di luglio ha visto dimezzarsi gli arrivi rispetto ad un anno fa: da più di 23.000 a 11.000 e rotti. E tutto questo prima che la missione navale italiana davanti alle coste libiche veda la luce o che il codice per l’Ong che operano nel Mediterraneo entri in vigore.

Cosa è successo ?

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La speranza di Ilaria e Miran

Quando ammazzarono Ilaria e Miran avevo vent’anni spaccati e guardavo il mondo come solo a vent’anni puoi permetterti, con quella speranza gigantesca che occupa tutto, senza lasciare quasi spazio alla rassegnazione o al disincanto.

Oggi sono passati altri vent’anni e la procura di Roma ha gettato la spugna chiedendo l’archiviazione dell’inchiesta sulla loro morte.

Come altri ho avuto tutto il tempo in questi due decenni di far spazio alla rassegnazione e al disincanto. Però ancora oggi mi è rimasto un po’ di posto per rimpiangere la cosa più importante di Ilaria: il suo giornalismo, la sua professionalità, la sua umanità. Mischiati tutti insieme.

Per intuirlo basta citare un piccolo episodio.

In uno dei suoi viaggi in Somalia Ilaria fu invitata, come altri giornalisti, a passare il Natale da Giancarlo Marocchino (chiaccheratissimo maneggiatore di molte faccende della Mogadiscio di allora) per festeggiare a champagne e aragoste. Ilaria declinò l’invito, perchè “non era andata in Somalia per mangiare aragoste“. La sera stessa prese un aereo per Merca e passò il giorno di Natale realizzando un servizio sul cronicario di Annalena Tonelli (che è stata uccisa in Somalia nell’ottobre del 2003).

La foto sopra di Ilaria e Miran è una delle ultime. L’ha scattata nel marzo del 1994 Raffaele Ciriello, uno dei più bravi fotogiornalisti italiani, ucciso a Ramallah nel 2002.

Ilaria, Miran, Annalena, Raffaele.

Ricominciare da loro per far spazio, solo un poco, alla speranza.

Che lì fuori, anche oggi, c’è un sacco di gente perbene.

Vasco, 28 vibratori e Padre Pio

E’ falsa la lista di oggetti smarriti che sarebbero stati ritrovati al Modena Park dopo il concerto di Vasco Rossi. Era strana, era divertente magari, ma era falsa.

Moltissimi l’hanno condivisa sui propri profili social facendo anche affidamento sul fatto che – diamine ! – l’hanno pubblicata anche siti e giornali (Il Messaggero, Il Fatto quotidiano, Tgcom, il Gazzettino, il Mattino, il Giornale, Libero, eccetera eccetera eccetera).

Le stranezze erano parecchie ma nessuno, a parte quelli di Giornalettismo ha pensato di fare una telefonata ad Hera, la municipalizzata che si è occupata della pulizia dell’evento.

Era molto più facile (e per alcuni redditizio) fare copia/incolla.

E’ una vicenda ovviamente relativamente piccola ed innocua, ma piuttosto esemplare. Migliaia di persone su social e siti stanno leggendo, commentando e scrivendo sul nulla.

Ma va bene, va bene così, condividimi !

(nell’immagine la prima fonte pubblica che si trova sulla vicenda: un post di un utente su Facebook all’una di pomeriggio di domenica, quando le operazioni di pulizia di Modena Park non erano ancora nemmeno finite, quel post è poi stato condiviso e copia-incollato anche dai primi siti di quotidiani, che poi sono stati ripresi a loro volta da altri siti e quotidiani).

Barbra Streisand e il prosciutto Ferrarini

Un castello, una bella foto, il prosciutto, i droni e Barbra Streisand. Tutto frullato insieme in una storia minuscola ed esemplare.

Da che i vecchi hanno memoria l’han sempre chiamato “il castello del Più Bello” anche se castello non è, ma una villa settecentesca fatta costruire dal conte Antonio Re. Si trova sulle prime colline emiliane, una manciata di chilometri a sud di Reggio Emilia e, incidentalmente, ad un tiro di schioppo da casa mia.

Nei secoli è passata nelle mani di ricche famiglie nobili e borghesi, fino ad approdare nel novecento alla famiglia Ferrarini, quella dei prosciutti.

Il Più Bello sta in posizione panoramica in un luogo molto coreografico, in particolare in autunno quando la vigna ben curata si accende di colori.

E’ un buonissimo esempio di tipica bellezza del paesaggio italiano e un ottimo soggetto fotografico, grazie anche a chi lo possiede.

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